Katia Marilungo

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TESI DI LAUREA IN PSICOLOGIA CLINICA E DI COMUNITA’

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI URBINO

FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

Corso di laurea in psicologia

 

LA POSIZIONE ANORESSICA DEL SOGGETTO PSICOTICO.

LA TERAPIA IN GRUPPO

 

Relatore: Chiar.mo Prof.                                                  Tesi di Laurea di:

 

FRANCESCO COMELLI                                               KATIA MARILUNGO

 

 

 

 

 

 

 

ANNO ACCADEMICO 2001-2002

 

INDICE

 

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO PRIMO

IL CONCETTO DI PSICOSI

 

1.1 DEFINIZIONE DI PSICOSI    11

1.2 STORIA PSICOPATOLOGICA DELLE PSICOSI.    13

1.2.1 Freud: differenza tra nevrosi e psicosi.  16

1.2.2 Klein: teoria delle “posizioni” e psicopatologia.  17

1.2.3 Bion: lo sviluppo del pensiero psicotico.  20

1.2.4 Jaspers: la psicosi da un punto di vista fenomenologico.  24

1.2.5 Bleuler: un contributo tra psichiatria e psicoanalisi.  26

1.3 TEMI FONDAMENTALI NELLE PSICOSI.    28

1.3.1 Il delirio.  28

1.3.2 Le allucinazioni.  30

1.3.3 Disturbi del pensiero.  31

1.3.4 I disturbi del se.  33

1.4 LE PSICOSI DEL CORPO.    36

CAPITOLO SECONDO

CHE COS’ E’ L’ANORESSIA MENTALE E LA BULIMIA?

 

2.1 BREVI CENNI STORICI.    39

2.2 DEFINIZIONE DI ANORESSIA MENTALE E BULIMIA.    42

2.2.1 Definizione psicodinamica.  42

2.2.2 Criteri diagnostici.  45

2.3 EPIDEMIOLOGIA.    50

2.4 LA PERSONALITA’ DELL’ANORESSICA E DELLA BULIMICA.    57

2.4.1 Tipo dipendente.  57

2.4.2 Tipo borderline.  58

2.4.3 Tipo ossessivo-compulsivo.  58

2.4.4 Tipo narcisista.  59

2.5 IL CORPO ANORESSICO BULIMICO.    60

2.6 ECCESSO BULIMICO CONTRO RIFIUTO ANORESSICO.    63

2.7 IL PROBLEMA DEL SESSO.    65

2.8 LA FAMIGLIA DELL’ANORESSICA.    67

2.8.1  I padri.  67

2.8.2  Le madri.  68

2.8.3  Fratelli e sorelle.  69

CAPITOLO TERZO

RAGAZZE CHE SOFFRONO DI ANORESSIA-BULIMIA CON STRUTTURA PSICOTICA.

 

3.1 ANORESSIA-BULIMIA E PSICOSI.    71

3.2 IL CULTO DEL NIENTE NELL’ANORESSIA.    74

3.3 LE DUE PASSIONI DELL’ANORESSICA.    77

3.4 IL RAVISSEMENT.    80

3.5 PSICOSI NON SCATENATE.    83

3.6 CONGIUNTURE DI SCATENAMENTO.    89

3.7 LA METAFORA DELLA MADRE-COCCODRILLO.    93

3.8 LA METAFORA DELL’ALPINISTA.    94

3.9 UN CONTRIBUTO DALLA MEDICINA.    96

CAPITOLO QUARTO

FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO ANORESSICO-PSICOTICO.

 

4.1 IL TRATTAMENTO DI GRUPPO.    99

4.2 GRUPPI MONOSINTOMATICI: QUALI RISCHI E QUALI VANTAGGI?    102

4.3 FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO PSICOTICO.    110

4.3.1  La logica psicotica del gruppo.  110

4.3.2  Il paziente psicotico nel gruppo a finalità’ analitica.  114

4.3.3  Scene-modello e fasi di un gruppo di psicotici cronici.  119

4.4   FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO ANORESSICO-BULIMICO.    128

4.4.1  Trattamento nel gruppo monosintomatico, un aiuto all’invivibilita’ del bisogno.  128

4.4.2  Il piccolo gruppo come trattamento dell’identificazione.  133

4.4.3  Dinamiche del gruppo anoressico-bulimico.  137

4.5 FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO ANORESSICO-PSICOTICO.    146

CONCLUSIONI 155

BIBLIOGRAFIA 159

INTRODUZIONE

 

Questo lavoro, come tesi di laurea, si proporrà di fornire una panoramica generale su una patologia quale l’anoressia-bulimia, che sta raggiungendo una diffusione epidemica preoccupante e visto il rischio essenziale di morte, l’interesse verso questa malattia, che colpisce generalmente giovani donne è per me motivo di approfondimento e di scelta verso un argomento, la cui difficoltà nel trattamento clinico è uno dei nodi più difficili da sciogliere sia nel campo medico, che soprattutto in quello psicologico.

L’anoressia e la bulimia sono sintomi di origine psichica che mostrano un grave problema interiore che richiede di essere ascoltato, infatti, è proprio questa l’idea centrale di questo lavoro, per cui questa patologia non va trattata come un’alterazione del meccanismo della fame o un disturbo dell’appetito, ma come un disturbo che implica l’inconscio del soggetto. Da questo deduciamo come l’anoressia, a cui sottende un rifiuto del cibo, non è una malattia dell’appetito, ma una patologia che evidenzia la questione del soggetto, poiché implicato nelle maglie della sofferenza di cui patisce. È proprio dal punto di vista psicoanalitico, che usa come strumento terapeutico l’utilizzo della parola, che affronterò questo tema, già a partire dal primo atto nutritivo come scambio d’amore, che il bambino stabilisce con la madre nei primi mesi di vita, si può notare come un possibile atteggiamento ansioso, divorante da parte della madre, possa determinare un rifiuto del cibo da parte del bambino, che utilizza la modalità di rifiuto come atto di separazione da una madre esageratamente ingombrante. Ma il vero scatenamento della patologia può avvenire nell’adolescenza, caratterizzata da una trasformazione fisica del corpo della donna, con l’emergere di una sessualità incapace da gestire e con il continuo formarsi di un processo di soggettivazione da parte dell’adolescente. Un adolescente che deve fare i conti con il mutare del proprio corpo, che se non sostenuto da uno sguardo di approvazione, potrebbe cadere nella rete dell’anoressia. Solo uno sguardo positivo, può regalare una crescita sana, sancita da una femminilità che riguarda la dimensione del piacere senza doverlo rinnegare. Ma nel caso in cui non viene promossa nessuna femminilità è facile che un soggetto cada in un’anoressia restrittiva per poi eventualmente evolversi in un’abbuffata continua seguita da vomito e quindi svilupparsi in bulimia. È proprio per questo che utilizzerò il termine unico “anoressia-bulimia”, perché parlerò di due posizioni che appartengono alla stessa logica. Da un lato, l’anoressia s’identifica con un ideale del corpo magro e per mantenerlo si radicalizza in forti restrizioni alimentari; la bulimica, invece, non abolisce la funzione dell’ideale anoressico del corpo magro ma la mantiene attraverso l’esercizio del vomito. Parlare del cibo sarebbe troppo riduttivo, infatti non è esso che può colmare il vuoto che abita il soggetto anoressico, ma la sua è una richiesta d’amore che pretende dall’altro, un altro che generalmente è un altro materno, che anziché dare come dono il proprio amore, ha donato solo cibo, cure e non l’amore. Ne deriva, che quello dell’anoressica è un appello rivolta all’Altro, poiché se questo non è stato in grado di dare amore e attenzione, l’unico modo per rendersi visibile ai suoi occhi e farsi scheletro, ridurre il proprio corpo ad osso per tentare di smuovere, di manovrare l’Altro per provocarne l’amore.

Partendo dal presupposto che l’anoressia-bulimia non è una struttura ma un fenomeno, fenomeno sintomatico che ci riconduce ad una struttura di fondo, approfondirò, in questo lavoro, il modo in cui nella clinica della psicosi, l’anoressia-bulimia funziona come una barriera, una difesa, rispetto all’Altro visto come invasore e folle che vuole godere del soggetto.

Inoltre, l’obiettivo centrale di questo lavoro sarà quello di sottolineare come l’anoressia consenta alla psicosi di mantenersi chiusa, di non scatenarsi, offrendo al soggetto la possibilità di realizzare una sorta di stabilizzazione, attraverso l’identificazione, della psicosi. Quindi, si può dire che l’anoressia-bulimia funge da trattamento pulsionale alle psicosi, dando così origine alle psicosi non scatenate, che sono delle psicosi dove non si arriva al delirio, ma talvolta anche l’anoressia-bulimia non è sufficiente e si ha una esplosione della psicosi vera e propria.

Una diagnosi d’anoressia-bulimia si assocerà alla struttura che le compete, per non rischiare di confondere il fenomeno con la struttura. Quando la struttura del soggetto è nevrotica, allora l’anoressia è un modo per provocare l’altro, infatti questo avviene, soprattutto nella versione isterica, prendendo spesso la forma di un ricatto verso l’altro, il paziente vuole sfidare, impressionare l’altro per ricevere le sue attenzioni, e gli riesce di farlo solo rendendo il proprio corpo cadavere. Contrariamente, nell’anoressia con struttura psicotica, il paziente non vuole interrogare l’altro, ma decide di non mangiare niente, perché il suo unico desiderio è quello di morire, di annientarsi.

La difficoltà di formulare una diagnosi, o di utilizzare un trattamento che può essere adottato con questi tipi di pazienti, è uno dei problemi più importanti nella clinica dell’anoressia; ed è per questo che ho scelto di trattare un tipo di terapia specifica: quella che prevede l’utilizzo di piccoli gruppi monosintomatici.

Attraverso questi piccoli gruppi, infatti, si tenta di aprire una domanda di cura, quasi sempre inesistente. Il soggetto anoressico non sente di essere ammalato, anzi il suo sintomo è l’unico modo per costruirsi un’identità, per cui molto spesso chi rivolge la domanda è un familiare o un amico; quindi è necessario produrre una domanda nel paziente che non chiede e anche nei casi in cui si rivolge a qualche associazione per chiedere aiuto, è necessario creare una rettifica nel paziente attraverso l’uso della parola, dando valore alla sua storia e rendendola unica, nonostante il monocromatismo sintomatico che lo accomuna agli altri pazienti.

Credo che sarà un po’ difficile proporre un quadro del tutto esauriente sul funzionamento di un gruppo composto da soggetti anoressici con struttura psicotica, per il fatto che la psicoanalisi non è stata molto incline al trattamento in gruppo per soggetti psicotici, ma credo che per il caso dell’anoressia, possa essere un’ottima possibilità di aiuto per il soggetto psicotico essere inserito all’interno di un campo gruppale composto da anoressiche con struttura nevrotica o psicotica.

Suddividerò il mio lavoro in quattro capitoli; nel primo introdurrò un discorso abbastanza dettagliato sulla psicosi, analizzandola, attraverso un breve cenno storico, sotto le due principali correnti in cui la psicopatologia è suddivisa, quella decrittiva e quella psicoanalita, riportando alcuni contributi di alcuni autori. Questa dicotomia tra psicopatologia descrittiva e psicopatologia psicoanalitica riprende la più importante dicotomia tra fenomeno e struttura, fondamentale per lo studio dell’anoressia. Inoltre esporrò in modo descrittivo alcuni dei principali sintomi caratteristici comuni delle psicosi, quali il delirio, l’allucinazione, i disturbi del sé e i disturbi del pensiero. Infine, parlerò del concetto di psicosi del corpo, all’interno delle quali sono comprese le sindromi ipocondriache maggiori, gli stati dismorfofobici e l’anoressia mentale.

Nel secondo capitolo, entrerò nel merito del discorso sull’anoressia, proponendo, dopo alcuni cenni storici, una definizione di essa sia psicodinamica che diagnostica, e dando un quadro epidemiologico della diffusione dell’anoressia negli ultimi decenni. Inoltre, tratterò le tematiche più importanti dell’anoressia-bulimia, cioè la personalità dell’anoressica, il problema del corpo, la contrapposizione tra eccesso bulimico e rifiuto anoressico, il problema del sesso e la famiglia dell’anoressica.

Solo nel terzo capitolo, entrerò nel discorso di un soggetto anoressico con struttura psicotica, parlando della mummificazione psicosomatica che l’anoressica compie per evitare di essere divorata dall’altro percepito come persecutorio, parlerò delle passioni per le ossa e per la bocca, che sono dei modi per ritrovare il proprio corpo e per placare l’angoscia di perdere il valore fallico del proprio corpo; tratterò la tematica molto importante delle psicosi non scatenate, psicosi chiuse, dove l’anoressia-bulimia è una modalità soggettiva di chiusura e compensazione della psicosi, che si manifesta diversamente dalle psicosi vere e proprie, ma si avvicina ad una sorta di prepsicosi.

Infine, nel quarto ed ultimo capitolo cercherò di analizzare il funzionamento e le dinamiche di un gruppo di terapia con anoressiche con struttura sia psicotica che nevrotica, sottolineando le varie difficoltà e i contributi significativi che la presenza di una psicotica porta all’interno del contesto gruppale. A supporto delle mie affermazioni presenterò un caso clinico analizzato nell’ABA (Associazione per lo Studio e la Ricerca sull’Anoressia Bulimia) per individuare i possibili riscontri tra ciò che è stato trattato dalla teoria e quello che emergerà, elaborando l’aspetto pratico del caso clinico. Di certo non potrò trattare tutti gli innumerevoli aspetti di questa patologia, ma spero almeno di chiarire alcuni punti essenziali relativi alla differenza non solo sintomatologica ma contestuale relativa ai sintomi, alla modalità del transfert, e all’inserimento in un gruppo di terapia relativa alle anoressiche-bulimiche di tipo nevrotico e di tipo psicotico.

 

 

 


 

CAPITOLO PRIMO

IL CONCETTO DI PSICOSI

 

1.1 DEFINIZIONE DI PSICOSI

 

Il termine psicosi è comunemente usato per indicare una serie di gravi disturbi del funzionamento mentale caratterizzati da una profonda alterazione della personalità, da una rottura della continuità del significato dell’esistenza, da una frattura con la realtà che impedisce al soggetto una adeguata valutazione del mondo reale, vissuto quasi esclusivamente in funzione delle alterazioni della sfera conoscitiva (percezioni, pensiero) e di quella timica (affettività, attività); in particolare nelle psicosi manca la coscienza di malattia e l’adattamento sociale è più o meno profondamente compromesso.

A livello descrittivo le psicosi si caratterizzano per comportamenti bizzarri, idee deliranti, reazioni affettive intense o labili in modo inappropriato, un significativo disturbo dell’esame di realtà. Sono spesso presenti disordini percettivi, quali allucinazioni e problemi nella comunicazione quali perdita dei legami associativi e blocco del pensiero.

Le psicosi vengono di norma suddivise in due gruppi:

– organiche, principalmente connesse a fattori organici (genetici, metabolici ecc.);

  • funzionali, soprattutto legate a fattori psicologici.

Attualmente ci sono problemi a conferma dell’importanza svolta dai fattori psicologici nello sviluppo di sintomi psicotici. La psicosi funzionale è un disordine mentale caratterizzato da una marcata regressione pulsionale e dell’Io che determina un severo disturbo di personalità.

Secondo Nancy McWilliams[1]oltre ai pazienti che si trovano in una situazione conclamata, i quali manifestano allucinazioni, deliri, idee di riferimento e pensiero illogico, ci sono molte persone con organizzazione del carattere a livello psicotico che non mostrano segni evidenti della loro confusione interiore di base, a meno che non siano sottoposte a un’intensa tensione. Entrambi i tipi di soggetti sono accomunati dall’uso degli stessi meccanismi di difesa quali diniego, chiusura, controllo onnipotente, idealizzazione e svalutazione primitive, forme primitive di proiezione e introiezione, scissione, e dissociazione. Queste difese sono preverbali e prerazionali e proteggono lo psicotico da un livello di terrore disperato tanto che le distorsioni create dalle difese stesse costituiscono per lui un male minore.[2]

Gli individui con personalità organizzata a un livello fondamentalmente psicotico hanno gravi difficoltà con l’identità, tanto gravi da non essere pienamente sicuri di esistere, ancor meno se la loro esistenza è soddisfacente. Queste persone sono profondamente confuse e di solito si trovano alle prese con questioni fondamentali di autodefinizione quali l’immagine corporea, l’età, il genere, l’orientamento sessuale e non possono neanche dipendere dall’esperienza altrui per riuscire a percepire una continuità del proprio sé, in quanto la descrizione che danno di se stesse e o di altri è vaga e visibilmente distorta. Il paziente con una personalità fondamentalmente psicotica, sebbene vi siano in lui residui di credenze magiche, non è ancorato alla realtà, si sente spesso confuso ed estraneo rispetto al pensiero comune della propria cultura. Inoltre c’è una netta incapacità di prendere le distanze dai propri problemi psicologici e considerarli oggettivamente, questo forse perché il combattere il proprio terrore esistenziale ha impegnato tanta energia da non averne più per valutare la realtà.[3]

Secondo Kernberg le difese primitive messe in atto dallo psicotico, come la scissione, hanno la funzione fondamentale di mantenere separate le relazioni oggettuali idealizzate e persecutorie derivanti dalle prime fasi dello sviluppo che precedono la costanza dell’oggetto. Una funzione aggiuntiva di tali funzioni è anche per Kernberg quella di compensare la perdita dell’esame di realtà, il quale implica la capacità di distinguere tra le rappresentazioni del sé e del non sé, tra stimoli interni ed esterni, nonché la capacità di provare empatia e di differenziare le qualità oggettive di una persona da quelle che soggettivamente le si attribuiscono: facoltà, queste, assenti nelle psicosi, come evidenziato dalla presenza di allucinazioni e deliri.[4]

Diversi psicoanalisti si sono occupati di individuare i criteri per una formulazione teorica delle psicosi, invocando, per spiegare la sua eziologia, alcuni il modello del conflitto, altri quello di un deficit dell’Io e altri ancora una forma combinata conflitto-deficit.

Un importante contributo è stato dato da Freud che ha distinto le psicosi dalle nevrosi e ha aperto un lungo dibattito sia tra i sui seguaci che tra coloro che non appartenevano alla corrente psicoanalitica.

 

1.2 STORIA PSICOPATOLOGICA DELLE PSICOSI.

 

La psicopatologia è lo studio sistematico delle esperienze, delle cognizioni, e dei comportamenti abnormi; è in sostanza lo studio di una mente alterata. La psicopatologia comprende la psicopatologia interpretativa, dove esistono assunti interpretativi basati su costrutti teorici come ad esempio la psicodinamica, il comportamentismo, o l’esistenzialismo; e la psicopatologia descrittiva che si limita alla descrizione precisa e alla categorizzazione di tali esperienze abnormi così come vengono riferite dal paziente e osservate nel suo comportamento. Tale osservazione accurata è estremamente importante ed è un esercizio molto più utile della semplice enumerazione dei sintomi; l’uso di elenchi che valutano la presenza o l’assenza di sintomi a volte impedisce un’osservazione clinica genuina.

La psicopatologia descrittiva si occupa di descrivere le esperienze soggettive, quindi i comportamenti risultanti nel corso della malattia mentale, ma non si spinge oltre a queste esperienze e comportamenti, né tenta di scoprire l’eziologia dei processi di sviluppo. Questo approccio ai fenomeni psichici contrasta completamente i riferimenti teorici psicoanalitici. La psicoanalisi, infatti, ritiene che almeno uno dei meccanismi di base sia in atto e renda comprensibile il comportamento all’interno di questo schema di riferimento. Le spiegazioni di ciò che si verifica nel pensiero o nel comportamento sono basate sui sottostanti processi teorici, come il transfert o i meccanismi di difesa dell’Io.

Di fronte ad un soggetto psicotico con un delirio, la psicopatologia descrittiva cerca di descrivere quello che la persona crede, come descrive la propria esperienza e quale significato da alla propria esistenza. Si cerca di valutare se la convinzione del soggetto ha le caratteristiche di un delirio e, se si, quale tipo di delirio. Avendo fatto questa valutazione fenomenologica, l’informazione raggiunta può essere usata in senso diagnostico, prognostico e quindi terapeutico.

La psicopatologia psicoanalitica, invece, è più propensa a tentare di spiegare il delirio in termini di conflitti precoci repressi nell’inconscio e capaci di esprimersi nell’attualità solo in forma psicotica, magari sulla base della proiezione. Il contenuto del delirio potrebbe essere considerato una chiave importante di comprensione dei conflitti sottostanti con radici profonde nello sviluppo precoce. La psicopatologia descrittiva non fa nessun tentativo di dire perché è presente un delirio: essa si limita ad osservare, descrivere e classificare. La psicopatologia psicoanalitica vuole descrivere come il delirio si è presentato e perché dovrebbe essere proprio quel delirio in particolare, sulla base delle esperienze della persona nelle prime fasi della vita[5].

Tale dicotomia tra psicopatologia descrittiva e psicopatologia psicoanalitica è solo un esempio della più grande distinzione esistente tra fenomeno e struttura.

Il criterio fondamentale che orienta una diagnosi psicoanalitica è un criterio strutturale. Una diagnosi dal punto di vista psicoanalitico deve infatti implicare la possibilità di ricondurre la dimensione dei fenomeni sintomatici, delle forme fenomeniche dei sintomi, alla loro struttura di fondo. La diagnosi, cioè, riporta la dimensione del fenomeno a quella della struttura. Freud ha differenziato la struttura soggettiva a partire dall’antinomia di nevrosi e psicosi[6]. In sostanza la psicoanalisi deve poter dimostrare, a partire dalla fenomenologia sintomatica di un soggetto, la struttura di fondo che la anima. Ma c’è un secondo criterio che orienta la diagnosi in psicoanalisi. Questo secondo criterio è il criterio che si fonda sulla particolarità irriducibile del soggetto. Nella clinica psicoanalitica ciascun caso, come afferma Freud, va preso come se fosse il primo. In questo modo viene sottolineata l’importanza assoluta della soggettività particolare del paziente.[7]

 

1.2.1 Freud: differenza tra nevrosi e psicosi.

 

Nell’insegnamento di Freud è presente una differenza, non solo fenomenica, ma anche di struttura, tra nevrosi e psicosi, che è responsabile di una diversa costituzione della realtà: la costituzione nevrotica e la costituzione psicotica.[8]La costituzione nevrotica sarebbe il risultato di un conflitto tra Io e Es, mentre la costituzione psicotica rappresenterebbe l’esito di un analogo conflitto tra Io e mondo esterno.

La costituzione nevrotica prende la forma della rimozione: l’Io si difende dal potente moto pulsionale dell’Es mediante tale rimozione; ma il rimosso si ribella procurandosi una rappresentanza sostitutiva che si impone all’Io: il sintomo. Quindi la rimozione, intervenendo per allontanare i moti pulsionali dalla coscienza, avrà un effetto di divisione del soggetto. Ciò che è rimosso non appartiene più al governo della coscienza e il suo ritorno, rispetto al quale la coscienza non ha più alcun controllo, da luogo alla produzione dei sintomi. Questo è quello che accade in tutte le nevrosi di traslazione.

Nella psicosi, invece, il mondo esterno o non viene percepito o la sua percezione non fornisce alcun effetto. Infatti nelle psicosi non solo non vengono accolte percezioni nuove, ma viene sottratta al mondo interiore una quota di investimento; l’Io si crea dispoticamente un nuovo mondo esterno ed un nuovo mondo interiore, quest’ultimo costituito in base ai moti di desiderio dell’Es. Questa frattura radicale col mondo esterno, che si crea sin dall’inizio nella psicosi, è dovuta ad una insopportabile frustrazione del desiderio ad opera della realtà; la ribellione dell’Es al principio di realtà può prendere le sembianze di una identificazione immaginaria particolarmente rigida, che permetterà al soggetto di mantenersi nella realtà sino allo scatenamento psicotico. Il lavoro di ricostruzione e ricomposizione delle nuova realtà avviene attraverso il delirio, che si va a sovrapporre laddove si era creata una lacerazione nel rapporto dell’Io con il mondo esterno. Il delirio è per Freud “un tentativo di guarigione o di ricostruzione”, il mezzo attraverso il quale il soggetto cerca di arginare il ritorno della realtà rimossa, che non cessa di imporsi alla vita psichica. Ma tale ricostruzione non va a limitare l’Es, va a creare una realtà nuova e diversa che non presenti le stesse difficoltà della realtà abbandonata, cioè quella originaria. Tale rimodellamento della realtà riguarda le tracce mnestiche, le rappresentazioni, e le valutazioni che sono state tratte dalla realtà; e le allucinazioni, le formazioni deliranti non sono altro che percezioni con lo scopo di trovare una corrispondenza con la nuova realtà.

Nevrosi e psicosi sono entrambe un’espressione della ribellione dell’Es contro il mondo esterno per cui si differenziano molto di più nella fase iniziale che in quella finale, nella quale viene messo in atto un tentativo di riparazione.

Come si può notare, in Freud, è presente una concezione strutturalistica della diagnosi differenziale tra nevrosi e psicosi, che consiste nella differenziazione tra il processo causale alla base delle due strutture.

 

1.2.2 Klein: teoria delle “posizioni” e psicopatologia.

 

La teoria delle “posizioni” è nata allo scopo di chiarire i complessi processi relativi allo sviluppo. Tali posizioni consistono in un articolato e coerente assetto di oggetti interni, angosce e difese. La Klein individua due posizioni che si dipanano nel primo anno di vita.

La prima da lei chiamata posizione schizo-paranoide sono presenti due pulsioni opposte e fondamentali (libidica e aggressiva) che portano alla scissione dell’oggetto. Ne derivano due modi di vedere l’oggetto del tutti separati (buono in quanto da gratificazione e quindi desiderabile e cattivo in quanto frustrante). In questa posizione non c’è cognizione, i due oggetti risultanti dalla scissione sono reciprocamente autonomi e hanno caratteri propri. La personalità si struttura in stretto rapporto col tipo di relazione oggettuale intrattenuta. La componente paranoide di questa posizione, caratterizzata dalla scissione, deriva dal carattere persecutorio con cui è visto l’oggetto cattivo, per cui l’Io si sente vittima di attacchi provenienti da oggetti esterni o interni. Si può difendere dall’angoscia con vari meccanismi di difesa come: l’idealizzazione dell’oggetto buono, il diniego, l’elaborazione di fantasie di controllo, l’identificazione proiettiva; in particolare con quest’ultima sono intromesse nell’oggetto esterno le parti cattive del sé al fine di dominarlo dall’interno.

Quando il bambino riesce a poco a poco ad integrare i due oggetti, quello buono e quello cattivo, accede alla posizione depressiva. Qui il bambino sente le pulsioni coesistere e lo stesso oggetto può essere suscettibile sia d’amore che d’odio. Assieme all’integrazione dei due oggetti, avviene anche l’integrazione tra le parti prima scisse dell’Io e il bambino diventa consapevole di aver leso l’oggetto amato; così viene invaso dal senso di colpa che provoca in lui l’angoscia depressiva alla quale farà fronte con la maniacalità e la riparazione, le due difese tipiche della posizione depressiva.

La posizione depressiva si presenta come una fase un po’ più matura rispetto alla precedente, ma il passaggio da una fase all’altra non è mai netto ma è graduale in quanto perdurano delle oscillazioni tra le due posizioni.

Le posizioni possono considerarsi come prototipi rispetto al riproporsi nel corso dell’intera vita di momenti di scissione, di perdita che appaiono in tutte le situazioni di conflitto, di competizione, ricorrenti nella vita quotidiana.

Quindi le posizioni, essendo due forme di strutturazione degli oggetti interni, e di conseguenza due forme tipiche di organizzazione dell’esperienza, tornano utili per affrontare fenomeni sia normali che patologici nello sviluppo di ogni individuo.

Con la teoria delle posizioni le nevrosi perdono di peso, essendo secondarie ai nuclei psicotici soggiacenti, anzi possono essere lette come difese dai fenomeni psicotici.

La Klein stabilisce così una continuità genetica tra psicosi e nevrosi, di cui Freud non aveva mai parlato, con la conseguenza che il superamento della nevrosi deve passare per una ricomposizione degli oggetti interni a livello delle posizioni.

I meccanismi di difesa più arcaici come la scissione e l’identificazione proiettiva prendono il posto che Freud attribuiva alla rimozione, con la quale spiegava anche la psicosi.

Per la Klein i fallimenti nell’elaborazione delle posizioni nel corso del primo anno di vita sarebbero punti di fissazione, da cui hanno poi origine i disturbi psicotici nell’adulto.

Lo psicotico non riesce a scorrere tra le varie posizioni, ma resta fissato a qualcuna, in particolare non riesce ad accedere ad un atteggiamento di riparazione.

Infine, la Klein attribuisce al rapporto con la madre il ruolo di strutturazione della personalità e quindi attribuisce la psicosi interamente a disturbi del corso di quel rapporto sottovalutando il ruolo della figura paterna e il complesso edipico.

Un’ultima differenza con Freud è che mentre quest’ultimo afferma l’impossibilita dell’instaurarsi del transfert con lo psicotico, la Klein sostiene che, grazie alla presenza di relazioni oggettuali e angosce arcaiche nello psicotico, è possibile sia la cura che un transfert intenso.

 

1.2.3 Bion: lo sviluppo del pensiero psicotico.

 

Bion[9], nel suo lavoro, analizza alcuni punti salienti della personalità psicotica, in particolare quella schizofrenica, attraverso le sue esperienze cliniche; i punti da lui approfonditi sono: la differenza tra personalità psicotica e non psicotica, la natura di questa differenza, e le implicazioni che essa contiene.

Per capire la linea di pensiero di Bion è necessario fare riferimento a tre fonti da cui l’autore ha attinto. La prima riguarda la descrizione che Freud da dell’apparato psichico messo in azione dalle esperienze del principio di realtà; più in particolare, ciò che Freud disse sulla coscienza collegata con gli organi di senso. La seconda fonte è “Il disagio della civiltà” dove Freud avanzava importanti suggerimenti sul conflitto tra gli istinti di vita e quelli di morte. Mentre la Klein sviluppò ulteriormente questi concetti, Freud sembrò allontanarsene: la Klein ritiene che questi conflitti persistano per tutta la vita e questa affermazione è di cruciale importanza per la comprensione dello psicotico. La terza fonte a cui si ispira Bion è data dalle descrizioni, sempre della Klein, degli attacchi sadici che il bambino dirige in fantasia contro il seno durante la fase schizoparanoide, nonché la scoperta della Klein dell’identificazione proiettiva. Questa consiste in una scissione, praticata dal paziente, di una parte della propria personalità e una contemporanea proiezione dentro l’oggetto, qui essa viene ad istallarsi in qualità di persecutore e lascia menomata la psiche dalla quale si è distaccata.

I disturbi psicotici prendono origine dall’interazione tra ambiente e personalità. Per quanto riguarda la personalità psicotica è più in particolare quella schizofrenica, questa è caratterizzata da quattro aspetti principali: il primo riguarda la prevalenza degli istinti distruttivi, tanto spiccata che anche la tendenza ad amare ne riceve dei connotati trasformandosi in sadismo; il secondo è l’odio per la realtà che, come affermò Freud, si estende a tutti i settori della psiche che la fanno rilevare; il terzo aspetto consiste nel sentirsi continuamente minacciati da un annientamento imminente; il quarto, infine, è il formarsi precipitoso e imminente di relazioni oggettuali tra le quali è molto importante il transfert, la cui fragilità contrasta fortemente con la tenacia con cui vengono mantenute le relazioni d’oggetto. Questi quattro aspetti fanno in modo che l’attraversamento delle fasi schizoparanoide e depressiva si effettui nello psicotico in maniera nettamente diversa da quella che si verifica nella personalità non psicotica.

Analoghi attaccati sadici della posizione schizoparanoide contro il seno, vengono rivolti contro l’apparato percettivo. Questo settore della personalità viene staccato via, spezzettato e poi per mezzo dell’identificazione proiettiva espulso. Senza tale apparato che lo mette in relazione con la realtà esterna ed interna e che gli fa prendere coscienza di se, il paziente arriva ad uno stato psichico le cui caratteristiche sono sentite come quelle di una persona che non è né viva né morta. La caratteristica

più importante della differenza tra personalità psicotica e non è rappresentata dell’identificazione proiettiva della coscienza e dell’instaurazione del pensiero verbale a questa collegata.

Il paziente si sente prigioniero di una condizione mentale e tale prigionia gli viene acuita dalla minacciosa presenza dei frammenti espulsi; infatti nella fantasia del paziente le particelle dell’Io espulse seguitano a condurre una vita loro autonoma ed incontrollata fuori della personalità; ogni particella viene percepita come qualcosa costituito di un oggetto esterno reale inglobato dentro un frammento di personalità che lo sommerge. Perciò la natura della particella dipende sia dalla natura dell’oggetto reale, sia dal carattere della particella di personalità che lo ingloba. Per questo motivo il paziente non si muove più in un mondo di sogni ma in un mondo di oggetti reali che assumono aspetti che hanno la caratteristiche della materia, degli stimoli sensoriali, delle idee, del super-io e di tutte le altre caratteristiche della personalità.

Un aspetto dell’identificazione proiettiva eseguita dalla personalità psicotica è rappresentato dalla sua incapacità di introiettare. Se il paziente desidera accogliere un’interpretazione, o di riprendere dentro di sé qualcuno degli oggetti descritti, deve farlo mediante un’identificazione proiettiva alla rovescia eseguendo la stessa strada percorsa precedentemente. Risulta quindi un’evidente differenza tra personalità psicotica e non; mentre la personalità non psicotica ricorre alla rimozione, quella psicotica impiega l’identificazione proiettiva. Nella parte psicotica non esiste dunque la rimozione. Tutto quello che, se vi fosse stata rimozione, sarebbe diventato un inconscio, in questa seconda regione viene ad essere rappresentato da una serie di oggetti, in mezzo ai quali si muove il paziente. Oltre all’identificazione proiettiva il paziente psicotico fa uso della scissione, termine differente da “dissociazione”. Freud aveva sempre usato i due termini indistintamente, mentre Bion utilizza il termine “scissione” solo nei casi molto più gravi, quindi nel senso usato dalla Klein, mente utilizza il termine “dissociazione” quando la separazione viene eseguita secondo modalità meno tumultuose.

Bion parla anche delle allucinazioni, spesso frequenti manifestazioni psicotiche, sia quelle uditive tipiche della schizofrenia, sia quelle di altra fonte sensoriale tipiche delle psicosi. Secondo Bion per capire l’allucinazione bisogna capire se un certo oggetto, erroneamente percepito, è stato posto fuori di lui passando attraverso il suo sguardo, oppure è un oggetto interno che ha percorso lo stesso tragitto in direzione opposta, perché è stato evacuato. Per quanto riguarda, invece, il contenuto dell’allucinazione, di solito è un oggetto ostile sia perché, dopo che l’aveva evacuato, il paziente si sentiva vuoto, sia in quanto la presenza di esso era così minacciosa.

La presenza di allucinazioni e di fantasie di organi di senso sono un indice importante della gravità del disturbo; infatti si devono considerare le allucinazioni, la scissioni e l’uso di organi di senso a scopo espulsivo, pur nella loro gravità, tutti sintomi che sono stati posti al servizio del desiderio di guarigione e in quanto tali hanno il loro risvolto costruttivo. Infatti confrontando tra loro differenti comportamenti allucinatori Bion ha constatato che in fasi meno avanzate non erano presenti quella coerenza e quel grado di integrazione che è stato messo in luce nell’ultimo episodio.

 

 

 

1.2.4 Jaspers: la psicosi da un punto di vista fenomenologico.

 

Karl Jaspers[10] può essere considerato il fondatore dell’orientamento fenomenologico e pone alla base della sua psicopatologia fenomenologica una prospettiva filosofica che ricava da Dilthey ed è centrata sulla classica distinzione tra lo spiegare (erklaren) e il comprendere (verstehen).

Jaspers ha mostrato come questi due termini possono essere usati in modo sia statico che genetico. Nel primo caso si tratta di una comprensione o di una spiegazione della situazione presente a partire da informazioni che sono disponibili ora, nel secondo si valuta come si è raggiunto questo stato attraverso un esame degli antecedenti.

Per quanto riguarda la comprensione statica viene esaminata l’esperienza soggettiva del paziente e se ne estrae un quadro statico di quello che significano per lui quel pensiero o evento in quel particolare momento. Non viene fatto nessun commento di come l’evento si sia generato e non viene fatta nessuna predizione su quello che succederà dopo. Il significato è estratto come descrizione di quello che il paziente sta’ sperimentando e di ciò che questo ora significa per lui.

La comprensione genetica, diversamente da quella statica, si occupa dei processi.

Per comprendere come gli eventi psichici derivino uno dall’altro nell’esperienza del paziente, il terapeuta usa l’empatia come un metodo o uno strumento. Egli sente se stesso nella situazione del paziente. Egli comprende i sentimenti che attribuisce al paziente in termini di azioni che derivano da questi sentimenti.

La spiegazione statica si occupa della percezione esterna, osservando un evento attraverso la senso-percezione esterna.

Infine, la spiegazione genetica consiste nel dipanare connessioni causali: descrive una catena di eventi e spiega il perché essi seguono quella sequenza.

Comprensione e spiegazione sono entrambe parti necessarie dell’indagine psicopatologica.

Jaspers fa una importante distinzione tra ciò che ha un significato, e consente l’instaurarsi dell’empatia, e ciò che in ultima analisi è incomprensibile, l’essenza dell’esperienza psicotica. Benché sia possibile empatizzare con il contenuto del delirio di un paziente in una qualsiasi situazione particolare, non si può comprendere o trovare una connessione significativa nel verificarsi del delirio in sé. Il delirio come evento è incomprensibile: esso appare al medico incomprensibile e irreale. Si può comprendere dalla conoscenza del retroterra di un paziente il perché la sua ideazione si sta disorganizzando in quella particolare forma, argomento, contenuto, ma non si può comprendere perché il paziente dovrebbe credere una cosa che è dimostrabilmente falsa.

Per Jaspers il delirio, di per sé, come forma psicopatologica, è incomprensibile. Connessioni comprensibili dimostrano, quindi, il nesso tra eventi psicologici differenti, mostrando attraverso un processo di empatia in che modo questi eventi scaturiscano gli uni dagli altri.

 

 

1.2.5 Bleuler: un contributo tra psichiatria e psicoanalisi.

 

Eugen Bleuler[11] fu il primo a compiere l’importante passo di utilizzare in rapporto alle psicosi quanto andava emergendo in rapporto alle nevrosi.

Bleuler delinea un modello di spiegazione della schizofrenia che ha fatto epoca e che è per l’appunto basato sul tentativo di congiungere in modo organico le due anime della psicopatologia moderna, quella kreapeliniana e quella freudiana.

Prima di illustrare il modello, è opportuno dedicare un cenno ad un’altra novità epocale; egli propone di sostituire il termine dementia precox (impiegato da Kraepelin) con un neologismi che sarà in seguito accettato universalmente: schizofrenia[12].

Il nuovo termine portava con sé una concezione completamente nuova di questa patologia psichiatrica. “Chiamo schizofrenia la dementia precox perché, come spero di dimostrare, una delle sue caratteristiche più importanti è la scissione delle diverse funzioni psichiche”[13].

L’equivocità del vecchio termine nasceva dal fatto che mentre la demenza vera e propria comporta la reale perdita di molte funzioni cognitive di base (memoria, coscienza, orientamento, capacità di programmare), nella schizofrenia queste funzioni, pur restando sostanzialmente integre, vengono sotto utilizzate oppure utilizzate in modo inadeguato.

Il modello proposto da Bleuler di schizofrenia prevede due strati; uno formato da sintomi di base (fondamentali o primari) i quali derivano direttamente da una patologia cerebrale sottostante, e uno strato di sintomi accessori o secondari che sono il risultato di un’attività psichica che si sviluppa per reagire o per compensare i sintomi di base. Mentre i sintomi fondamentali sono immancabili e costituiscono quindi la dimensione necessaria e generale della sintomatologia schizofrenica, i sintomi secondari sono largamente variabili e formano la dimensione contingente e individuale della sintomatologia. I sintomi secondari, quali il delirio e l’allucinazione, scaturiscono da un’elaborazione psichica individuale, “il contenuto delle idee deliranti è quindi impensabile senza determinati disturbi esterni. I sintomi sarebbero impossibili senza contenuto. Quindi le allucinazioni e le idee deliranti non possono sorgere direttamente dal processo morboso.”[14].

L’alterazione principale nella fenomenologia schizofrenica è la scissione (spaltung) che colpisce la vita psichica in tutti i suoi aspetti. Nell’ambito dei sintomi fondamentali, la scissione colpisce in primo luogo il decorso ideativo e in particolare le associazioni su cui esso si regge. Anche l’affettività risulta gravemente intaccata già a livello primario. I sintomi fondamentali della sfera affettiva si possono ricondurre a due principali disturbi: la tendenza all’indifferenza e l’incongruenza, dove è particolarmente in rilievo l’elemento della dissociazione. Altro sintomo primario, anche esso di natura dissociativa, è l’ambivalenza, per cui una stessa rappresentazione può essere connotata contemporaneamente sia da sentimenti gradevoli che sgradevoli (ambivalenza affettiva).

Tra i sintomi fondamentali riveste infine un’importanza e un ruolo del tutto speciale l’autismo, il quale viene così definito da Bleuler “distacco dalla realtà e predominanza della vita interiore”[15].

È interessante considerare la genesi dell’autismo, perché già qui si apre il discorso sul versante della sintomatologia secondaria, la quale è di origine non organica bensì intrapsichica. Il punto di partenza è la costituzione di complessi che, separatisi dal resto della vita psichica, diventano predominanti ed entrano fatalmente in conflitto con la realtà. Nella schizofrenia i complessi svolgono un ruolo patogeno decisivo a causa del disturbo associativo di base, a causa del quale lo schizofrenico non è cognitivamente in grado di capire e dominare la realtà, e allora la evita trovando rifugio nell’autismo.

Per quanto riguarda la trattazione dei sintomi secondari diventa ancora più netta l’influenza della psicoanalisi, e più in particolare di Freud. Il tratto comune dei sintomi secondari è la falsificazione della realtà in funzione dei desideri e dei timori inconsci intorno ai quali si sono coagulati i complessi.

Per concludere l’intera trattazione della genesi dei sintomi secondari è in realtà una libera applicazione delle idee di Freud alla schizofrenia.

 

1.3 TEMI FONDAMENTALI NELLE PSICOSI.

 

Le psicosi presentano sempre dei sintomi caratteristici comuni quali i deliri, le allucinazioni, disturbi alla coscienza (soprattutto alla coscienza della malattia), disturbi del sé e della consapevolezza corporea.

 

1.3.1 Il delirio.

 

Un delirio è un’idea falsa, non criticabile, o una convinzione che non è riferibile al retroterra educativo, culturale o sociale del paziente; essa viene sostenuta con straordinaria convinzione e certezza soggettiva. Dal punto di vista soggettivo o fenomenologico essa è indistinguibile da una convinzione vera. La decisione di chiamare delirante una convinzione di questo tipo non è attribuibile alla persona che ha questa idea, ma ad un osservatore esterno. Non ci possono essere definizioni fenomenologiche di delirio dal momento in cui la persona che ha queste idee le sostiene con la stessa convinzione ed intensità con cui sostiene altre idee non deliranti su se stessa. Un delirio ha origine nelle stesse condizioni di qualsiasi altra idea, e cioè nel contesto di una percezione, di un ricordo o di un’atmosfera; oppure può essere autoctono, cioè verificarsi in modo spontaneo. I deliri possono essere classificati in due diverse categorie: deliri primari e deliri secondari.

I deliri secondari possono diventare comprensibili qualora sia disponibile una storia psichiatrica dettagliata, ossia nel quadro dell’umore del paziente e della sua storia di vita. I deliri secondari possono essere riportati alle circostanze che si sono presentate nel corso della vita di una persona, al suo attuale stato emotivo, alle credenze del gruppo al quale appartiene e alla sua personalità; sono comprensibili e anche transitori.

I deliri primari, invece, possono essere visti come emergenti in modo incomprensibile dall’ambiente interno ed esterno del paziente e quindi non possono essere spiegati; possono solo essere così classificati: deliri autoctoni, percezioni deliranti, atmosfera delirante e ricordi deliranti.

Per quanto riguarda il contenuto dei deliri, esso è determinato dal retroterra emotivo, sociale e culturale del paziente e possono essere di vari tipi: deliri di persecuzione, di infedeltà, erotici, di grandezza, religiosi, di colpa, di povertà o nichilistici, di infestazione o di controllo.

I deliri si presentano alla mente del folle alla stessa maniera che un’idea si presenta alla mente di un’artista: le due cose sono indistinguibili dal punto di vista soggettivo.

 

1.3.2 Le allucinazioni.

 

Le allucinazioni sono percezioni che si verificano in assenza di uno stimolo esterno degli organi di sensi, ma che sono vissute come se fossero attivate effettivamente tramite gli stessi organi di senso. Possono aver luogo in qualsiasi modalità sensoriale e la loro natura ha un’importante rilevanza diagnostica.

Anche per le allucinazioni, come per i deliri, quello che il medico definisce patologico è per il paziente un’esperienza sensoriale normale.

Quindi, dal punto di vista soggettivo, un’allucinazione è indistinguibile da una percezione normale. La sola traccia per il paziente sul fatto di essere allucinato è di non poter avere una prova di supporto per questa percezione attraverso altre modalità sensoriali.

Il senso di realtà sperimentato dai pazienti quando sono allucinati è stato studiato da Aggernaes[16]. Egli ha puntualizzato sei qualità delle sensazioni di cui le persone normali possono essere consapevoli, che sono presenti anche nelle allucinazioni:

  • come si è in grado di distinguere il percepire con gli organi sensoriali dall’immaginare gli organi stessi, così anche le allucinazioni sono esperite come una sensazione e non come un pensiero o una fantasia;
  • quando una persona esperisce qualcosa si rende conto della rilevanza che questa cosa ha nelle sue emozioni o azioni, e questo avviene anche nelle allucinazioni che hanno una rilevanza comportamentale;
  • le sensazioni normali come quelle dell’allucinato hanno qualità di oggettività;
  • si considera che un oggetto esista se l’osservatore si sente certo della sua esistenza, e questo avviene anche nelle allucinazioni;
  • l’esperienza della percezione di un oggetto come l’allucinazione sono involontarie dal momento che chi le esperisce sente impossibile cacciarle via;
  • chi fa l’esperienza è consapevole che la sua esperienza non è dovuto al fatto di trovarsi in uno stato mentale insolito, questa qualità di indipendenza è presente anche nelle allucinazioni.

Ci sono vari tipi di allucinazioni per quante sono le modalità sensoriali e sono allucinazioni uditive, visive, autoscopiche, somatiche, olfattive e gustative.

Prima di decidere che un paziente è allucinato, si deve considerare la possibilità di altre esperienze percettive, che non necessariamente hanno un significato patologico. La diagnosi differenziale delle allucinazioni comprende le illusioni, le pseudoallucinazioni, le immagini ipnagogiche e ipnopompiche e la percezione normale.

 

1.3.3 Disturbi del pensiero.

 

Il processo di pensiero è stato arbitrariamente diviso da Fish[17] in tre tipi: pensiero fantastico, pensiero immaginativo e pensiero razionale.

Per quanto riguarda il pensiero fantastico, questo può essere di breve durata, per esempio il sognare ad occhi aperti, oppure diventare uno stile di vita stabile.

La fantasia svolge un ruolo importante nel modo in cui ciascuno di noi conduce le proprie attività quotidiane, per esempio le persone timide possono usare il pensiero fantastico per compensare le proprie delusioni; ma Bleuler[18] vide questo isolamento dalla vita reale nel pensiero autistico come una caratteristica dello schizofrenico; il fantasticare può svilupparsi dallo stadio di forma deliberata e sporadica di pensiero fino ad essere una modalità stabilizzata, la persona comincia a credere al contenuto delle proprie fantasie, che diventano soggettivamente reali e accettate come fatti.

Freud si rese conto che poteva trattarsi di questo meccanismo in casi di molte donne che riferivano di aver avuto una relazione incestuosa con il padre da bambine[19]. In questa categoria rientrano vari tipi di esperienze: il mentire patologico, la conversione isterica, la dissociazione e le idee simil-deliranti che si verificano nelle psicosi affettive. La fantasia viene di solito compresa, nel suo significato positivo, come la creazione di immagini o idee che non hanno una realtà esterna. Tuttavia, il pensiero fantastico si può rilevare anche nella negazione della realtà esterna.

Un’altra modalità di pensiero è il giudizio, che è un particolare pensiero che esprime una visione della realtà. Per valutare se esso è disturbato o no, occorre confrontarlo con il fatto obiettivo. La valutazione di un giudizio erroneo non viene però fatta solo sulla base di una particolare credenza, ma prendendo in considerazione la totalità del comportamento della persona e le sue opinioni. I disturbi del giudizio possono essere i deliri primari che sono falsi convincimenti attaccabili dalla critica. Ma le facoltà di giudizio di aree diverse da quella interessata dal delirio possono essere intatte. Un delirio schizofrenico non è un semplice difetto del ragionamento, il suo sviluppo non può essere compreso esclusivamente in termini di vita reale del paziente. Il punto di partenza del suo pensiero è già delirante, e la sua logica inizia l’elaborazione da questa base. L’intero processo di pensiero è disturbato nel delirio primario, non solo il contenuto.

Lo schizofrenico è, inoltre, incapace di mantenere i confini concettuali del pensiero concreto, per cui il suo pensiero viene definito iper-inclusivo, quando cioè le idee che anche solo lontanamente sono correlate al concetto in esame vengono in esso incorporate dal pensiero del paziente.

Tuttavia, il pensiero concreto della schizofrenia, non è distinguibile da quello nevrotico o psicotico ed è stato associato con l’intelligenza. Il pensiero iper-inclusivo è stato riscontrato solo nella metà degli schizofrenici, di solito nella fase più acuta, mentre gli altri, nella fase cronica, mostravano un più marcato rallentamento, dove il paziente mostra poca iniziativa, non inizia alcuna attività spontanea, ha difficoltà nel prendere decisioni, nel concentrarsi, ha scadimento nella lucidità del pensiero e ha una cattiva registrazione degli eventi che è necessario ricordare.

 

1.3.4 I disturbi del se.

 

Il corpo è unico in quanto sia dal di dentro che dall’esterno; esso è contemporaneamente oggetto e sé. Per la maggior parte del tempo noi non abbiamo consapevolezza del corpo ma in una situazione di estrema ansia, o di dolore, o di eccitamento sessuale è presente una consapevolezza dei sistemi fisiologici o degli organi in quanto oggetti.

Alterazioni dell’immagine corporea possono essere il risultato di sensazioni abnormi, ma non è sempre così; spesso l’immagine corporea disturbata è

dovuta da un conflitto tra l’Io ( il modo in cui il paziente sperimenta se stesso e il genere a cui attribuisce il proprio corpo) e la propria immagine di sé.

L’immagine del corpo può essere alterata per aumento, diminuzione o distorsione.

I disturbi della consapevolezza del Sé vanno ad alterare una o più delle seguenti caratteristiche formali:

  • la sensazione di consapevolezza dell’attività;
  • la consapevolezza dell’unità;
  • la consapevolezza di identità;
  • la consapevolezza dei confini del sé.

Un disturbo all’interno della consapevolezza dei confini del sé si può trovare della corso della schizofrenia, in cui il senso di inversione del proprio sé appare un tratto fondamentale per definire la natura della condizione che il paziente esperisce. Il paziente non è consapevole che il disturbo interessa i confini dell’Io, mentre un osservatore esterno trova che è presente una confusione o perdita dei confini del Sé che tuttavia non è evidente per il paziente medesimo.

In tutte le esperienze di passività si attribuiscono in modo erroneo al non Sé delle funzioni che vengono vissute come influenze provenienti dal mondo esterno. Ciò è erroneo, in quanto tali funzioni provengono in realtà dal sé.

Analogamente, nel percetto delirante una percezione delirante viene percepita correttamente e commentata come proveniente dal di fuori. Tuttavia, l’oggetto della percezione che è di fatto neutro e irrilevante per il sé, è dereisticamente interpretato come altamente significativo e viene investito di speciali significati personali.

Un altro termine usato per indicare un cambiamento peculiare nella coscienza del sé, nel corso del quale la persona ha la sensazione di sentirsi irreale, è la depersonalizzazione. La cosa migliore è riservare l’uso di questa parola a un sentimento di come se, piuttosto che all’esperienza di certezza di irrealtà che si verifica nella psicosi. In sostanza, la depersonalizzazione è uno stato soggettivo di irrealtà nel quale vi è un senso di estraniamento dal sé o dal mondo circostante. Qualche volta c’è stata confusione a proposito del fatto che la depersonalizzazione possa essere distinta dai disturbi dell’immagine di Sé che si verificano nella schizofrenia. Tuttavia, Meyer[20] come citato da Sedman ha distinto i disturbi del sé schizofrenici dalla depersonalizzazione, dal punto di vista fenomenologico, cioè sulla base della descrizione del paziente delle proprie esperienze interiori. È riconosciuto che sintomi veri di depersonalizzazione si verificano in pazienti schizofrenici, specialmente nelle prime fasi della malattia, ma può anche essere descritta nel disturbo maniaco-depressivo.

Comunque, l’esperienza sgradevole della depersonalizzazione, con una sensazione di irrealtà, rimane centrale per la descrizione dei disturbi del sé. Il disturbo che la provoca può essere organico o ambientale, psicotico o esistenziale.

Un altro sintomo, infine, frutto della distorsione corporea e, in questo caso, l’avversione per il corpo è la dismorfofobia. Questo disturbo si caratterizza per il fatto che il soggetto è preoccupato per difetti immaginari del proprio aspetto fisico e ricorre a specialisti per far correggere tale difetto. Il soggetto è talmente preoccupato per il difetto che ci pensa in maniera ossessiva e può passare ore per cercare di mascherarlo o può evitare le situazioni sociali.

La dismorfofobia viene a volte descritta da pazienti schizofrenici. Si può presentare come primo sintomo, mentre si sta presentando la condizione schizofrenica, ma può anche essere presente in un caso già definito e mostrerà quindi la sintomatologia schizofrenica.

 

1.4 LE PSICOSI DEL CORPO.

 

Per psicosi del corpo si intende un insieme di sindromi psichiatriche caratterizzate da un disturbo di livello psicotico, capace cioè di sovvertire il rapporto Io-mondo. In questo contesto il corpo viene inteso non come corpo biologico, ma come corpo in relazione con la vita psichica, come modo con cui un individuo sperimenta il suo corpo.

Come afferma Galimberti[21] il corpo può essere definito come veicolo di apertura al mondo di cui non si ha la percezione. In tutte le psicosi del corpo, invece, il corpo ha perso definitivamente questo ruolo di silenzio per diventare prima di tutto altro da sé e finire per caricarsi di persecutorietà.

Sotto il termine psicosi del corpo sono riunite le sindromi ipocondriache maggiori, gli stati dismorfofobici, le anoressie mentali[22].

In tutte e tre i quadri morbosi il corpo viene ad assumere alcune caratteristiche in comune: si ha una perdita di anonimia del corpo; il corpo si carica di portati persecutori che finiscono per essere sempre interni o esterni; il corpo diventa l’interlocutore privilegiato dell’esistenza imponendosi nel rapporto Io-mondo. Tra una psicosi del corpo e l’altra cambia la qualità della nuova intenzionalizzazione del corpo stesso, con le sue conseguenti aperture di significato.

Nell’ipocondria delirante una parte del corpo comincia ad essere vissuta come portatrice di un minaccioso cambiamento; qui il corpo fa da teatro alla minaccia, la esprime[23]. Gli ipocondriaci deliranti si rapportano con le proprie idee di malattia con la stessa modalità formale dei deliranti di persecuzione nei confronti del proprio persecutore. Un rapporto fatto di angosciosa persecutorietà e di ambivalenze interne, di aspetti irrealisticamente gratificanti e appaganti.

Negli stati dismorfofobici il corpo viene formalmente vissuto con modalità persecutoria; in un’alterazione del rapporto Io-mondo si inserisce una parte del corpo che esprime e fa da teatro a questa frattura. La parte del corpo che si vede trasformata subisce sia la modificazione che la minaccia angosciosa nei confronti dell’Io. La dismorfofobia[24] rende il soggetto ossessionato dal proprio aspetto fisico al punto da mettere in atto comportamenti esagerati e compulsivi come pettinarsi in continuazione o eliminare i peli superflui, tenta in ogni modo di camuffare il proprio difetto fisico con cosmetici o vestiti, arrivando perfino a chiedere interventi di chirurgia estetica.

Negli stati anoressici la parte nucleare dell’Io rifiuta la propria rappresentazione somatica nella sua interezza. Il corpo tutto, con i suoi bisogni, si carica di un significato persecutorio. L’obbiettivo dell’Io diventa quello di trionfare su un corpo sempre più emaciato, trasparente e in prospettiva negato alla sua stessa esistenza.

Tra queste tre sindromi si possono notare ampie aree di sovrapposizione. Questo può avvenire in uno stesso paziente, o anche nell’evoluzione di uno stesso quadro morboso.

Infine, in tutti e tre i quadri morbosi, il corpo rappresenta un punto di arretramento nel dispiegarsi dell’esistenza, un punto che permette comunque il mantenimento di una struttura dialogica, dove il corpo può funzionare come una struttura frenante nei confronti delle tendenze disgreganti dell’esperienza psicotica. Questo aspetto frenante va inteso in doppio senso: come qualcosa che arresta le tendenze disgreganti della psicosi e contemporaneamente che attenua (e talvolta si pone come ostacolo) nei confronti delle possibilità evolutive e maturative.

Un esempio di sovrapposizione è quella che si verifica tra dismorfofobia e i disturbi dell’alimentazione che possono essere anche secondari rispetto al primo e sono la conseguenza di un’alterata percezione del corpo. È possibile in questa sovrapposizione ipotizzare due diversi “percorsi” che associano l’anoressia nervosa al dismorfismo. Da un lato è infatti ragionevole pensare che l’anoressia sia la conseguenza del dismorfismo, come tentativo di controllare il proprio peso corporeo al fine di rendere il corpo adeguato al proprio ideale. Dall’altro lato è possibile ipotizzare il percorso diametralmente opposto, ovvero della dismorfofobia come conseguenza dell’anoressia. Per quanto riguarda il vissuto emotivo di una paziente anoressica affetta da dismorfofobia, è un’esperienza ricca di spersonalizzazione e irrealtà, che si concretizza nel vedere il proprio mutare rapidamente di aspetto, dilatandosi e restringendosi a vista d’occhio. Ciò a volte può portare a livelli deliranti, e sfociare persino in episodi di dissociazione e autolesionismo. La percezione allucinatoria del cambiamento del corpo può infatti generare un terrore tale da ricorrere all’automutilazione come unica soluzione per arrestare il processo.

 

CAPITOLO SECONDO

CHE COS’ E’ L’ANORESSIA MENTALE E LA BULIMIA?

 

2.1 BREVI CENNI STORICI.

 

L’evoluzione storica del concetto di anoressia mentale passa attraverso quattro importanti periodi; il primo periodo consiste dei primi tentativi di identificare la malattia con l’esposizione dei casi più rilevanti e fu nel XVII secolo per opera del medico inglese Morton che ne diede una prima definizione. Morton descrisse con il nome di “atrofia o consunzione nervosa”, una consunzione del corpo che si accompagnava a perdita di appetito e delle funzioni digestive. Morton, oltre a descrivere per esteso due importanti casi, elencò anche i connotati essenziali della malattia e suppose che alla base della consumazione nervosa dovessero trovarsi sofferenze morali e preoccupazioni, ma non era ancora chiaro se Morton vi attribuisse importanza eziologica.

Un altro contributo importante fu quello dato dal neurologo inglese Whytt il quale in un suo trattato del 1767 fece cenno a questa malattia attribuendone le cause ad un disturbo dei nervi dello stomaco.

Il secondo periodo, invece, coincide con l’identificazione dell’anoressia mentale come una precisa identità clinica con rispettivo quadro morboso e patogenesi attribuito al sistema nervoso non periferico. È proprio nella seconda metà dell’800 che si ha l’invenzione nosografica del concetto di “anoressia” con una definizione clinica che fece entrare questa malattia nella letteratura medica moderna. Tale definizione è data in sincronia da due medici: l’inglese Gull e il francese Lasègue. Da premesse differenti e con conclusioni non del tutto coincidenti, i due giungono a dare un nome ad un fenomeno che, nella pratica clinica dell’epoca, appariva non rientrare nei modelli conoscitivi. È stato Ernest Charles Lasègue il primo a riconoscere in un articolo pubblicato nel 1873, dal titolo De l’anorexie hystèrique, il fenomeno anoressico come sindrome psicopatologica autonoma. Nello stesso periodo (1874), in modo del tutto indipendente dal primo, l’inglese sir William Gull, giunse a conclusioni simili. La posizione di Lasègue si differenzia, però, da quella di Gull, laddove, il primo insiste nell’includere l’anoressia nell’ambito dell’isteria (“anoressia isterica”), mentre il secondo sostiene l’ipotesi di un fondamento costituzionale, “nervoso” (“anoressia nervosa”). Nel 1883, inoltre, Huchard con il suo allievo Deniau distingue due forme: l’anoressia gastrica, in cui predominano i sintomi digestivi, e l’anoressia mentale, che rappresenta la “pura” malattia psichiatrica e comporta problemi mentali piuttosto che digestivi. Dunque, fino ai primi anni del nostro secolo si pensava che la malattia avesse per base solo un’alterazione psichica.

Il terzo periodo inizia dopo il 1914 con la pubblicazione dei lavori si Simmonds e comprende tutti i lavori sorti dall’equivoco tra la malattia di Simmonds e l’anoressia mentale. Fu solo grazie al quarto periodo con gli innumerevoli studi psicoanalitici, fenomenologici, e analitico-esistenziali, che l’impegno fu diretto non tanto alla definizione e sistemazione nosografica, quanto all’approfondimento delle conoscenze psicologiche e alle conseguenti prospettive terapeutiche.

Sin dagli albori l’anoressia era considerata una malattia di pertinenza psichiatrica, ma il comportamento negativistico delle ammalate ostacolava la comunicazione delle loro esperienze interne; inoltre, la loro incapacità ad introspezionarsi e a verbalizzare i propri sentimenti, pose la preoccupazione di fondare una psicogenesi dell’anoressia mentale basandosi sullo studio di pochi casi.

Il primo tentativo fu fatto da Janet con il suo trattato “Les obsession et la psychastènie” nel 1903, il quale descrisse con estrema precisione un caso clinico e sembrava sostenere un rifiuto delle ammalate ad assumere il ruolo sessuale femminile. Anche Freud, pur non approfondendo casi di anoressia mentale, li aveva associati alla malinconia, definendo l’anoressia mentale “malinconia in una sessualità non sviluppata”.

Molti studi importanti furono fatti dagli psichiatri di orientamento fenomenologico tra cui Binswanger, che parlò del noto caso di Ellen West, che è un monumento esemplare di ricerca psichiatrica; Kuhn, che si occupò nei suoi casi di anoressia mentale delle categorie fenomeniche di spazio e tempo, traendone materiale per la comprensione dei vissuti delle sue ammalate, nonché favorevoli risultati terapeutici; e Zutt, il quale cercò di isolare in questa sindrome il sintomo primario che credette di individuare nella sfera del costume alimentare, non solo come espressione del fatto biologico, ma anche come espressione del grave difetto di socializzazione delle pazienti.

Importanti furono anche i lavori americani ad orientamento psicoanalitico, in particolare il contributo di Hilde Bruch, la quale volle raggiungere una visione essenziale dei disturbi primari e giunse ad una elaborazione di una impostazione psicoterapeutica più adeguata alle esigenze fondamentali di queste pazienti.

Un approccio più recente è quello di Dally, il quale, con i suoi innumerevoli casi studiati, giunse a dividere i pazienti di anoressia mentale in tre categorie: un gruppo “ossessivo”, un gruppo “isterico”, e un gruppo ad eziologia mista. I primi due gruppi rappresenterebbero la forma primaria, mentre il terzo la forma secondaria. Ma la classificazione forse più pertinente è quella fatta dalla Bruch, che ha suddiviso i pazienti in due gruppi, i casi di anoressia vera e i casi di pseudo-anoressia.

 

2.2 DEFINIZIONE DI ANORESSIA MENTALE E BULIMIA.

2.2.1 Definizione psicodinamica.

 

A seconda del comportamento alimentare e della corporatura dell’individuo i disturbi alimentari vengono suddivisi in tre grandi categorie: l’anoressia, la bulimia e l’obesità. Questi quadri clinici presentano molte caratteristiche tipiche di una mania: la ricerca avida di un dato elemento, la segretezza, uno stato di ebbrezza o di offuscamento della ragione, seguito da un brusco risveglio accompagnato da sensi di colpa e di vergogna e dal proposito di iniziare l’indomani una vita nuova, proposito che regolarmente non viene mantenuto.

L’anoressia è caratterizzata dalla riduzione volontaria dell’assunzione del cibo che, in certi casi, può portare ad uno stato di dimagrimento letale. Il disturbo è caratterizzato da una abnorme paura di ingrassare e il prepotente desiderio di essere magri porta a evitare il cibo e in alcuni casi a vomito autoindotto o abuso di purganti. La maggior parte dei tratti fisici di questa malattia sono il risultato dell’inedia. I soggetti anoressici, con la loro apparente fragilità, il loro corpo sfinito e consunto, suscitano in parte un senso di pietà, in parte di ammirazione, a volte anche di ribrezzo, sempre, comunque, di stupore. Un soggetto anoressico ha sempre un qualcosa di inavvicinabile. Tuttavia il termine anoressia, applicato a questo quadro clinico, ha portato a innumerevoli equivoci. Il significato etimologico della parole derivante dal greco è “assenza di brama”, ma la realtà bio-psicologica delle pazienti è totalmente diversa; infatti come afferma la De Clercq[25]l’anoressia è un termine “fuori strada” in quanto non c’è persona più affamata dell’anoressica, di cibo, di amore, di aiuto. In realtà il cibo è per le anoressiche importantissimo, forse la cosa più importante.

Si parla, invece, di bulimia quando esiste uno smodato bisogno di mangiare, patologico e condizionato psichicamente. Di norma, alla fine dell’attacco di fame, il bulimico vomita quasi tutto quello che ha ingerito ed è quindi in grado di conservare il proprio peso inalterato. Una donna bulimica appare perfetta, severa, fredda, arrogante, distaccata. Suscita ammirazione, ma al tempo stesso non è facile avvicinarsi a lei. Nessuno sospetterebbe che dietro quella perfezione ci sia una donna che si abbuffa fino a non poterne più e poi vomita. La bulimica vive con questo segreto che non rivela per nulla al mondo, ma che la rende intimamente sola, in quanto è qualcosa che non può condividere.

Di norma la fame smodata a livello psicologico conduce all’obesità, quando la quantità eccessiva di cibo ingerito non viene espulsa. In una cultura che ha fatto della magrezza un canone di bellezza la donna obesa genera ribrezzo e repulsione, la donna obesa è avvolta da una barriera che lei stessa ha costruito tra se e gli altri.

Questi tre disturbi conducono allo stesso risultato: creano distanza.

La donna anoressica è orgogliosa di tenere bene in pugno il proprio organismo e i propri bisogni, ma a livello psichico le manca autonomia, non è indipendente né in grado di decidere per sé e teme di perdere questo controllo faticosamente conquistato. La donna bulimica accetta solo la proprio immagina perfetta, ma rifiuta il vero Io che quasi non conosce e teme di manifestare; nei suoi attacchi di fame si impone questa parte di sé

che lei nemmeno conosce e che è lontana dalle sue pretese di perfezione e

 

che bisogna rendere innocua.

Spesso sono persone che non amano il loro vero Io e che non riescono a formulare richieste o rifiuti per paura di non essere più amati. Servendosi della distanza evitano che gli altri si avvicinino. Con il bisogno incoercibile di mangiare o la negazione del cibo vengono messe a tacere le emozioni e questo è certamente più sicuro che lasciarsi andare o essere trascinati.

Le persone affette di queste disturbi hanno paura di far soddisfare i propri bisogni da qualcuno e far in modo che si crei un legame di dipendenza. La perdita di questo “qualcuno” sarebbe per loro ancora più difficile da accettare che lo stato di privazione in cui si trovano.

Come sostiene la De Clercq[26] si potrebbe dire paradossalmente che l’anoressia e la bulimia sono in qualche modo una soluzione, una cura. È un modo per sottrarsi all’altro che diventa il mezzo su cui fondare la propria esistenza, per trovare la propria identità. La magrezza diventa il segno della propria capacità di resistere, l’unico modo per essere accettati e riconosciuti adeguati.

Come sostiene la Bruch[27] l’anoressia e la bulimia sono sintomi creati dalla moda, in quanto lo sviluppo epidemico dell’anoressia tra le giovani donne occidentali è l’effetto dell’influenza esercitata sul discorso sociale dall’industria della moda. Tale influenza si traduce sia nella diffusione epidemica della malattia, sia nell’ampliamento della fascia di età colpita che tende attualmente a riguardare la prima infanzia e ad estendersi fino all’età adulta.

 

 

 

2.2.2 Criteri diagnostici.

 

Il DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell’American Psychiatic Association, 1994) propone i seguenti criteri diagnostici per l’anoressia nervosa:

 

A   Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura (per es. perdita di peso che porta a mantenere il peso corporeo al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza, con la conseguenza che il peso rimane al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto).

 

La perdita di peso è inizialmente ottenuto tramite la riduzione della quantità totale di cibo assunta. Anche se la restrizione calorica può essere inizialmente limitata all’esclusione di cibi ipercalorici, nella maggior parte dei casi questi soggetti finiscono per avere una alimentazione rigidamente limitata a pochi cibi.

 

B   La paura di acquistare peso o di diventare grassi anche quando si è sottopeso.

 

Questa paura di solito non è mitigata dal decremento ponderale, anzi in molti casi la preoccupazione per il peso corporeo aumenta parallelamente alla perdita reale di peso.

 

C   Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso.

 

Alcuni soggetti si sentono grassi in riferimento alla totalità del loro corpo, altri pur ammettendo la propria magrezza, percepiscono come “troppo grasse” alcune parti del corpo. Possono adottare le tecniche più disparate per valutare dimensioni e peso corporeo, come pesarsi continuamente, misurare con il metro o osservare allo specchio le parti percepite come “grasse”. La forma fisica e il peso corporeo esercitano una forte influenza sul livello di autostima di questi pazienti i quali considerano la perdita di peso come una straordinaria conquista, segno di ferrea disciplina, mentre l’incremento ponderale è esperito come inaccettabile perdita della capacità di controllo.

 

D Nelle femmine dopo il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi. (Una donna è considerata amenorroica se i suoi cicli si manifestano solo a seguito di somministrazione di ormoni, per es. estrogeni).

 

L’amenorrea compare solitamente dopo il calo ponderale, ma in una minoranza di casi può precederlo o persistere anche dopo il ripristino di un peso normale. In epoca pre-puberale il disturbo può condurre ad un ritardo nella comparsa del menarca.

 

Sottotipi:

Con Restrizioni: nell’episodio attuale dell’anoressia nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).

Con Abbuffate/Condotte di Eliminazione: nell’episodio attuale di anoressia nervosa il soggetto ha presentato regolarmente abbuffate e condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).

 

Il DSM-IV ha aggiunto ai criteri diagnostici proposti dal DSM-III-R la distinzione dell’anoressia nervosa in due sottotipi in base alla presenza o meno nell’episodio attuale di abbuffate e condotte di eliminazione.

Nel sottotipo con restrizioni in cui cioè non si riscontrano abbuffate o condotte di eliminazione, la perdita di peso è ottenuta attraverso la dieta, il digiuno o un’eccessiva attività fisica.

Nell’altro sottotipo, invece, oltre alla perdita di peso ottenuta attraverso le modalità sopra indicate, si riscontrano anche abbuffate e condotte di eliminazione con una frequenza, che le scarse stime finora disponibili, indicano come almeno settimanale. Queste sottocategorie diagnostiche, insieme a quelle relative alla bulimia nervosa sono state introdotte per tenere distinte la diagnosi di anoressia nervose di tipo “bulimico”, quella cioè con abbuffate e condotte di eliminazione, dalla diagnosi di bulimia nervosa.

 

Il DSM-IV propone i seguenti criteri per la diagnosi della Bulimia Nervosa:

  1. Ricorrenti abbuffate. Un abbuffata è caratterizzata dalla presenza simultanea dei due comportamenti seguenti:

1) mangiare in un definito periodo di tempo una quantità di cibi significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo e in situazioni simili.

2) sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (ad es. sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si stia mangiando).

 

Il cibo assunto durante l’abbuffata comprende generalmente cibi dolci, ipercalorici; comunque l’anomalia riguarda soprattutto la quantità di cibo, piuttosto che la compulsione verso un alimento specifico.

Nelle fasi più precoci del disturbo, durante l’abbuffata, l’individuo può esprimere un senso di estraniamento, alcuni parlano di una esperienza di derealizzazione. Nelle fasi più tardive invece più che una perdita acuta di controllo, si riscontra l’incapacità di resistere all’impulso della crisi o di interromperla una volta iniziata.

 

  1. Ricorrenti ed inappropiate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, enteroclismi o altri farmaci, digiuno o esercizio fisico eccessivo.

 

Il vomito autoindotto è adottato dall’80-90% dei soggetti in cura presso centri specializzati per i Disturbi dell’Alimentazione, esso riduce il malessere fisico e la paura di ingrassare. In alcuni casi il vomito rappresenta l’effetto ricercato: il soggetto si abbuffa per poter vomitare, oppure vomita anche per piccole quantità di cibo. L’uso inappropriato di lassativi è presente in un terzo dei soggetti con bulimia nervosa.

  1. Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte alla settimana, per tre mesi.
  2. I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei.

 

I soggetti con bulimia nervosa solitamente si vergognano delle loro abitudini alimentari patologiche che tentano di nascondere. L’abbuffata è spesso precipitata da stati di umore disforico, condizioni interpersonali di stress, intensa fame a seguito di una restrizione dietetica, oppure da sentimenti di insoddisfazione relativi al peso, alla forma del corpo. Durante l’abbuffata ci può essere una transitoria riduzione della disforia, ma spesso seguono umore depresso e spietata auto critica.

 

  1. L’alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa.

 

Il terrore di ingrassare, il desiderio di perdere peso, il livello di insoddisfazione per il proprio aspetto fisico sono sovrapponibili a quelli di soggetti con anoressia nervosa. In ogni caso non è giustificata la diagnosi di bulimia nervosa se il disturbo si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa.

Sottotipi:

Con condotte di eliminazione: nell’episodio attuale di bulimia nervosa il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi.

Senza condotte di eliminazione: nell’episodio attuale il soggetto ha utilizzato regolarmente altri comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente al vomito autoindotto o all’uso di lassativi.

 

In sintesi, tre sono le caratteristiche indispensabili per porre la diagnosi di anoressia nervosa:

  • La fobia di aumentare di peso
  • La perdita di peso
  • L’amenorrea

I tre sintomi necessari per la diagnosi di bulimia nervosa sono:

  • La fobia di aumentare di peso
  • Le abbuffate compulsive
  • I comportamenti impropri di compenso

Dunque “…la paura morbosa di ingrassare è il sintomo nucleare comune, essenziale per la diagnosi, condiviso dalle due sindromi, il fenomeno psicopatologico più evidente e specifico”[28]

 

2.3 EPIDEMIOLOGIA.

 

La maggior parte degli esperti è concorde nel riconoscere una notevole crescita di disturbi del comportamento alimentare negli ultimi anni, crescita che ha indotto alcuni a parlare di una vera e propria “epidemia sociale” (Gordon, 1990). In realtà rispetto a questo incremento, difficile è estrapolare il ruolo giocato dalle maggiori conoscenze acquisite in campo scientifico, dall’introduzione di criteri diagnostici meno limitativi, dalla diagnosi più precoce e dal riconoscimento dell’importanza dell’intervento precoce. Va inoltre sottolineato che le stesse anoressiche oggi escono più allo scoperto grazie al diffondersi, attraverso i mass-media e le comunità scientifiche, di un atteggiamento meno stigmatizzante verso l’anoressia.

Cuzzolaro in un aggiornamento del 1993, in cui ha preso in considerazione le più importanti indagini europee statunitensi del ‘900, ha constatato che sebbene l’aumento dell’incidenza di questa malattia sia dimostrata da tutti gli studi[29], i tassi di incidenza riportati dalle varie ricerche appaiono molto diversi tra loro e non sono confrontabili. Ciò dipende da differenze nella metodologia e da differenze nel calcolo del dato.

Secondo il DSM-IV, nella fase adolescenziale o nella giovane età adulta, l’anoressia nervosa si presenta con un incidenza dello 0,5-1% dei casi, mentre la bulimia nervosa con un’incidenza dell’1-3% dei casi. L’anoressia è una malattia che nel 90-95% dei casi riguarda soggetti di sesso femminile, similmente alla bulimia, il cui tasso di presentazione nel sesso maschile è circa un decimo rispetto a quello del sesso femminile.

Secondo il DSM-IV l’età media di insorgenza dell’anoressia nervosa è di 17 anni; i dati suggeriscono una distribuzione bimodale con due picchi, a 14 e a 18 anni. Nel documento Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa. Linee guida alla diagnosi e alla terapia (1996), pubblicato dal Ministero Italiano della Sanità, si sostiene che le anoressiche prepuberali sono associate ad indici di psicopatologia più elevati e ad una prognosi psichiatrica generalmente più grave; si è inoltre rilevato che il numero di casi di anoressia nervosa che esordiscono dopo i 20 anni e talora dopo il matrimonio, risulta in aumento. Per la bulimia nervosa il DSM-IV fissa l’esordio nella tarda adolescenza o nella prima età adulta; Lavanchy (1994) ne situa l’età media di inizio verso i 19 anni, cioè un po’ più tardi dell’anoressia, e sottolinea che secondo la maggior parte delle statistiche la metà delle donne bulimiche sono già state anoressiche.

Accanto ad anoressia e bulimia, si sono diffusi una serie di comportamenti alimentari meno gravi, ma comunque inquietanti. Si tratta di condotte alimentari disordinate, fatte di diete ipocaloriche iniziate poi abbandonate, di condotte ascetiche rotte da crisi bulimiche, di pratiche dimagranti basate su vomito autoindotto e all’uso di lassativi; comportamenti finalizzati cioè a diminuire o almeno a controllare il peso corporeo.

Tale diffusione delle pratiche dimagranti affonda le sue radici non solo nella psicologia dei singoli individui, ma anche in una tendenza collettiva in atto nelle società industrializzate. Molto probabilmente tante persone ricercano la magrezza poiché è stato colto il messaggio culturale proposto in tutte le immagini che accompagnano la nostra vita: l’ideale di bellezza femminile privo di rotondità, lo stereotipo di magro come sinonimo di sano, bello, attraente, giovane, felice. La magrezza è segno di osservanza di canoni estetici dominanti, è uno status symbol. Per un effetto di imitazione, anche la ricerca della magrezza attraverso le diete o i digiuni è diventata uno status symbol. Il nostro ambiente culturale dunque esalta la ragazza magra e sofisticata, mentre destina quella grassa alla solitudine e al ridicolo sociale.

Vi sono correlazioni significative tra la ricchezza di una nazione o ceto sociale e la ricerca al suo interno della magrezza. È interessante notare che nei tempi e nei luoghi in cui il cibo era privilegio di pochi, l’obesità era segno di distinzione ed erano particolarmente apprezzate le donne formose se non proprio grasse. L’interesse verso i modelli femminili lineari nei paesi occidentali ha coinciso con la ripresa economica degli anni ’60, e la diffusione dei disordini alimentari di tipo anoressico ha registrato una forte accelerazione proprio nel decennio successivo.

L’anoressia maschile non presenta differenze sostanziali, sul piano epidemiologico, rispetto a quella femminile. L’età media di esordio è probabilmente più precoce (14 anni). Tra i maschi anoressici le classi medio-basse sono percentualmente più rappresentate che tra le ragazze anoressiche. Anche tra i maschi l’anoressia nervosa sembra in aumento negli ultimi decenni, anche se forse non nella stessa proporzione del sesso femminile[30].

Anoressia e bulimia sono particolarmente frequenti negli Stati Uniti, Canada, Europa, Australia, Giappone, Nuova Zelanda, Sud Africa, paesi in cui vi è abbondanza di cibo ed è enfatizzato il valore della magrezza; sono invece praticamente assenti nei paesi poveri dell’Africa, Asia e dell’America Latina. Si può ritenere che l’anoressia e la bulimia siano sindromi etniche, legate cioè ai valori e ai conflitti della cultura occidentale, in particolare riguardo al ruolo femminile.

La loro diffusione nei paesi dell’Est europeo, nei Paesi del Terzo Mondo e fra gli immigrati da nazioni povere verso nazioni ricche sembra legata ai processi di occidentalizzazione.

Quanto alla distribuzione dei disordini alimentari secondo i vari livelli socioeconomici, si è constatato che inizialmente rilevanti nei ceti abbienti dei paesi occidentali industrializzati, i comportamenti di tipo anoressico si sono a poco a poco estesi alle classi meno agiate, espandendosi dai ricchi ai meno ricchi all’interno di un gruppo etnico, e dai gruppi etnici dominanti ai gruppi emergenti all’interno di ogni società[31].

Negli Stati Uniti ad esempio i disordini alimentari sono arrivati a coinvolgere, dopo un lungo periodo di apparente immunità, gli strati superiori della popolazione nera; nel Sud Africa l’anoressia miete vittime soprattutto tra le ragazze bianche, seguite dalle figlie di importanti famiglie nere. Holden e Robinson[32] e Lacey e Dolan[33] riportano le caratteristiche di pazienti di razza nera affluiti presso due centri specializzati per le cure dei disturbi dell’alimentazione a Londra.

Per meglio illustrare quanto finora detto sull’anoressia riporto le tabelle elaborate da Cuzzolaro[34] che raccolgono i risultati di importanti ricerche internazionali sulla prevalenza di tale patologia.

 

Tab. 1 Studi sulla prevalenza dell’anoressia nervosa. I valori si riferiscono, in percentuale, a campioni di donne adolescenti e adulte giovani, nella maggior parte dei casi studentesse

1° autorePaeseAnnoAltri criteriDSM-IIIDSM-R
CrispUK19761,0 (scuole private)

0,2 (scuole pubbliche)

  
ButtonUK1981-19880,2- 0,40,2 
SzmucklerUK19831,1 (scuole private)

0,14 (scuole pubbliche)

  
BallotSouth Africa1981 3 
RastamSweden1985 0,84 
GilibergSweden1986 8 
CuzzolaroItaly1988-1992  0,4-0,36
CulibergSweden1988  0,26
Ben TovimAustralia1989  0,1
ToolstrupDenmark1990  0,5
WhitakerUS1990  0,3
ManaraItaly1991  O,22
DolliItaly1991  0,2
LucasUS1991  0,48

 

 

 

Tab. 2 Studi sulla prevalenza della Bulimia Nervosa. I valori si riferiscono, in percentuale, a campioni di donne adolescenti e adulte giovani, nella maggior parte dei casi studentesse.

 

1° AutorePaeseAnnoCriteri RusselDSM-IIIDSM-R
StanglerUS1980 5,3 
HalmiUS1981 19 
ButtonUK1981,19880,9-1,61,6 
PyleUS1983 4,5 
CooperUK1983,19881,9-1,8  
JohnsonUS1984 4,9 
GrossUS19889,6  
DrenowskiUS19882,9-3,3  
CuzzolaroItaly1988,1992 1,71,0-0,7
CulibergSweden1988 0,50,26
Ben TovimAustralia1988 15,22
BushnellNew Zeland199000,20,5
ToolstrupDenmark1990  0,3
KinikeJapan19882,9 0,3
DottiItaly1991  5,3
LedouxFrance1991 1,81,1

 


 

2.4 LA PERSONALITA’ DELL’ANORESSICA E DELLA BULIMICA.

 

Una classificazione più precisa ed esaustiva delle pazienti anoressiche è possibile facendo riferimento al DSM-IV. Mentre la gran parte dei disturbi della personalità non hanno nulla a che fare con le pazienti anoressiche e bulimiche, quattro di essi, come sostiene la Palazzoli[35], descrivono molto bene almeno alcuni tratti delle loro personalità: i disturbi di personalità dipendente, borderline, ossessivo-compulsiva e narcisista.

 

2.4.1 Tipo dipendente.

 

Le ragazze con questo tipo di personalità sono quasi tutte anoressiche restrittive. In questo gruppo prevale un ruolo sessuale molto infantile e una vita sociale soddisfacente; anche lo studio e il lavoro è di solito nella media generale della popolazione. Le loro storie infantili sono di solito caratterizzate da una relazione molto stretta con la madre, di cui comprendono perfettamente gli stati d’animo. Il rapporto fisiologico sembra quasi invertito, in quanto l’empatia della madre verso la figlia appare mancante, mentre la ragazza è stata una consolazione per lei. In esse prevale un attaccamento eccessivo alla madre o ad altre figure di riferimento tanto che si può ipotizzare che il loro attaccamento sia stato di tipo ansioso-ambivalente. La loro idealizzazione verso i genitori le rende molto poco aggressive e rivendicative al di là del sintomo, con il quale cercano un sollievo ai loro sentimenti di disvalore, di scarsa autostima, e con il quale cercano una modalità per affermare per la prima volta la loro autonomia, il proprio corpo, le proprie scelte.

 

2.4.2 Tipo borderline.

 

In questo raggruppamento si trovano di solito ragazze anoressiche bulimiche; le loro caratteristiche principali sono il loro ruolo molto seduttivo, la tendenza all’isolamento sociale e un rendimento scolastico o lavorativo leggermente inferiore al resto della popolazione. La loro storia infantile è caratterizzata dall’investimento paterno, in quanto sfiduciate dal rapporto di attaccamento ambivalente o disorganizzato che hanno avuto con la madre. Tale attaccamento al padre è l’esito di una disperata esigenza di trovare un referente affettivo in un mondo di aggressività e abbandono. Queste ragazze possono essere o molto interessate al corpo, alla loro cura personale, al bisogno di mascherare l’obesità o la magrezza eccessiva con abiti costosi che sottolineano l’identità sessuale, oppure molto trascurate e autolesive. In questa categoria i sentimenti predominanti sono di depressione ed angoscia, ma ci sono anche soggetti più turbati che possono avere anche flash allucinatori di tipo visivo.

 

2.4.3 Tipo ossessivo-compulsivo.

 

La maggioranza di anoressiche con questa organizzazione di personalità è di tipo restrittivo oppure sono diventate bulimiche dopo una fase di anoressia. Parecchie di loro sono molto isolate socialmente o hanno come unico rapporto quello con il ragazzo, mentre il loro rendimento scolastico o lavorativo è di norma nella media. Benchè i tratti ossessivi siano sempre reperibili nell’anoressia, in questo caso il digiuno genera regolarmente un pensiero fisso e ripetitivo sul tema alimentare, così come la presenza di temi dismorfofobici (paura di ingrassare) siano intrinseci alla diagnosi di anoressia, tuttavia in questo raggruppamento sembrano più spiccati. Nella storia infantile di queste ragazze manca una legame preferenziale con un genitore, e l’allevamento che hanno ricevuto è stato spesso “mimato”[36]. Il loro modo di vestire è del tutto anonimo, a volte con tratti che appaiono di rifiuto dell’identità sessuale. Praticano spesso attività motorie e sportive in modo compulsivo. La dieta esordisce spesso per motivi ponderali, ma diviene rapidamente strettissima, vissuta come prova di controllo e di adeguatezza. Il digiuno è raro di solito preferiscono cibi ipocalorici preparati con meticolosità a cui è spesso associata una sintomatologia fobica. Se contrariate, le pazienti possono avere inoltre crisi d’ira e di ritiro, cui fanno seguito ulteriori restrizioni.

 

2.4.4 Tipo narcisista.

 

Queste ragazze sono spesso molto ostili, ambivalenti, e passive. Il ruolo sessuale è molto rigido e infantile e la loro vita sociale è dominata dall’isolamento a causa del loro egocentrismo, della megalomania, dell’intolleranza verso le critiche e della propensione allo sfruttamento degli altri. Queste ragazze assumono un atteggiamento di superiorità, fino al disprezzo, verso i genitori, soprattutto verso la madre. Per loro, alimentarsi è quasi sempre associato ad azioni di controllo sull’ambiente e sulle relazioni. Quando l’angoscia sottostante aumenta, i rituali sono protratti e possono essere pericolosi. La cura del corpo è molto precisa mentre nella solitudine domestica possono essere trascurate soprattutto

 

quando affiorano gli aspetti depressivi. Nella loro storia infantile possono esserci degli elementi di eccitazione o seduttività da parte di entrambi i genitori. Ci sono due varianti di questa tipologia, quella più “autistica”, dove prevalgono tratti depressivi, e quella più paranoide, caratterizzata da una storia di “sindrome da indennizzo” rispetto ai genitori.

 

2.5 IL CORPO ANORESSICO BULIMICO.

 

La genesi delle confusioni percettive e concettuali, cioè della autocoscienza corporea nelle anoressiche mentali è stata esaminata da Hilde Bruch[37], la quale notò l’incapacità delle pazienti a riconoscere i segnali fisiologici di fame e sazietà, giacché tali segnali venivano confusi con i vissuti ansiosi e con i vissuti di vuoto emotivo. La Bruch sostiene che è erroneo presumere che l’organismo umano conosca le proprie sensazioni corporee; il riconoscimento dei bisogni corporei ed il comportamento appropriato per soddisfarli dipende da un apprendimento che inizia dall’infanzia con la soddisfazione il più possibile esatta dei bisogni, che può avvenire solo se i genitori considerano il figlio come un “altro da sé” in grado e in diritto di avere bisogni discordanti da loro, dalle loro percezioni e dalle loro concettualizzazioni.

Il problema maggiore per l’anoressica è il corpo: un corpo che da un lato rappresenta l’identità del soggetto stesso, dall’altro il suo bisogno di tenersi fuori da ogni possibile presa dell’Altro; perché essere presi dall’Altro significa essere catturati dal desiderio. Ma un corpo senza l’Altro è il corpo muto dell’anoressia, refrattario a farsi luogo di incontro. Il corpo anoressico è un corpo che non vuole farsi sorprendere, né dal dolore, né dalla gioia, né dal piacere; è un corpo che sceglie il non-incontro e la solitudine. Il corpo senza l’Altro è il corpo anoressico-bulimico che si degrada, si annienta fino a sentirsi indegno dell’Altro. Un corpo che si disancora completamente dall’Altro si allontana anche dal desiderio.

Nell’anoressia-bulimia stare al servizio del sintomo significa sciogliere i propri legami con l’Altro, scegliere il cibo come partner e non, ad esempio, il proprio uomo, le proprie passioni e i propri ideali. Significa non avere una giusta causa per cui combattere, per rendersi desiderabili agli occhi dell’Altro; anzi l’idea di poter essere l’oggetto del desiderio dell’Altro, di doversi curare per l’altro risulta insopportabile per l’anoressica.

Oltre che partner il cibo viene eletto ad autoterapia: negato, assorbito, espulso. E il corpo, privato o invaso dal cibo, diventa espressione di quella sofferenza che l’anima non riesce ad esprimere. La reale paura, che è quella dell’anima insicura rispetto al confronto con l’altro, viene tradotta nella paura del non controllo del cibo, paura pervasiva ed ossessiva. Nella bulimia con obesità, il sintomo sembra assumere significati ancora più protettivi e simbolici. La massa corporea protegge dalla sessualità, dalla competitività, dalla possibilità di esprimere la rabbia, dalla necessità di prendere decisioni, dal confronto da cui ci si ritrae subito in quanto ci si definisce perdenti da sempre. Il grasso serve anche a nascondere in una massa amorfa le violente pulsioni dell’anima, proprio perché lo spessore del corpo è una protezione capace di nascondere l’anima e la sua voce. L’anima incerta, infatti, cerca l’amore e le conferme di cui ha bisogno tramite il corpo. Il peso eccessivo protegge anche dalle attenzioni altrui, particolarmente pericolose per chi è assetato di amabilità e di consensi da avere difficoltà a dire no.

Come sostiene Recalcati[38] quando si parla di anoressia e bulimia il pensiero va sempre al cibo, in realtà si trovano sempre segni antichi di un disagio col corpo o con la propria immagine. Tale disagio antico ha avuto il suo sfogo nel corpo è nel corpo che ora ricerca la sua soluzione. Quello che viene ipotizzato da Recalcati è che nel caso di un soggetto anoressico-bulimico si verifichi “una amplificazione del valore libidico dell’immagine del corpo e dell’effetto di padronanza che la sua costituzione introduce nel soggetto”, questo a causa “di una difficoltà relativa proprio alla costituzione dell’immagine narcisistica del corpo”[39].

Il fatto che anoressia e bulimia chiamino in causa il corpo in modo così violento rimanda ad una riflessione sulle prime fasi dello sviluppo, ossia alla notevole incidenza di casi di aborti che precedono la nascita, la casualità del concepimento, qualche fatto particolare nella vita dei genitori, una delusione rispetto al sesso della bambina ecc..

Il rapporto che c’è tra il soggetto e il corpo è segnato da due tendenze: una va nella direzione di un desiderio di annullamento, l’altra va nella direzione dell’istinto di sopravvivenza, un istinto di vita, che però si esprimerebbe attraverso la soppressione del corpo come unica condizione perché il soggetto possa esistere. A questo punto l’immagine del corpo magro, come segno di una padronanza sul proprio corpo, potrebbe fungere da elemento riparatore, proprio per la precedente esperienza vissuta nella primissima infanzia.

Il corpo, quindi nell’anoressia, è un corpo odiato, vissuto come deforme, da distruggere, assottigliare, offendere, che diviene il bagaglio di ogni insoddisfazione e senso di colpa. Un corpo che diviene lo strumento di comunicazione di ogni sofferto disagio e di ogni bisogno di attenzione paralizzante, sempre agognato in silenzio, ma mai chiesto. Da questa condizione di tormento all’autolesionismo il passo non è breve. Ferire il proprio corpo, infatti, così come vomitare o digiunare, significa agire verso il raggiungimento dell’obiettivo principale, cioè l’autopunizione. L’autolesionismo può presentarsi sia come una conseguenza dell’angosciante vissuto dismorfofobico spesso presente nell’anoressia, sia come uno dei mezzi più efficaci per proseguire verso la distruzione del proprio corpo. Le cicatrici rappresentano, nel simbolico anoressico, la visibile testimonianza dell’autodisciplina e assolvono ad una funzione rassicurante circa il proprio essere stata ancora una volta “impeccabile”. Essere anoressica significa principalmente “stare sotto controllo”, mortificare ogni diritto vitale, punirsi senza sosta privarsi di ogni piccola gratificazione e mantenere il controllo di questa perenne privazione. Da un punto di vista fisiologico il dolore fisico può rappresentare la stessa identica dinamica del “mordersi la lingua” quando si sente un dolore: causarne uno maggiore che però sia sotto controllo e che al tempo stesso distolga l’attenzione da quello precedente, che è incontrollabile perché causato da qualcosa di esterno e ingestibile. Ferirsi è dunque un modo per guarire un dolore con un altro dolore più forte. Un dolore dell’anima che viene affievolito da un dolore del corpo.

 

  • ECCESSO BULIMICO CONTRO RIFIUTO ANORESSICO.

 

L’anoressia e la bulimia sono due passioni che trascinano il soggetto in un vortice; nella bulimia ciò che fa perdere la testa è il cibo, mentre nell’anoressia è la pulsione di controllo che diventa talmente autonoma da impedire al soggetto di controllare la sua stessa spinta a controllare.

La ragazza bulimica, al contrario, non controlla più nulla, ma è guidata dalla pulsione; ne sono un esempio i toni, i modi con cui la bulimica parla del cibo, che sono gli stessi con i quali qualcuno può parlare dell’oggetto di una passione irrefrenabile quanto contrastata, che rende schiavi. Non c’è niente per una bulimica che possa prendere il posto del cibo, anche se questo non può sostare nel corpo, né essere assimilato ma deve essere evacuato, espulso, vomitato. L’eccesso bulimico, infatti, è una passione odiosa per l’oggetto-cibo.

Dall’altra parte l’anoressica è persa nella sua passione delirante per la propria immagine corporea, per l’immagine del corpo magro; è persa nel senso di trionfo che le procura un corpo magro e sottile, nel sentirsi perfettamente autocontrollata, senza sentire nessun segno di cedimento. Nell’anoressia, diversamente dalla bulimia, non è più il soggetto a sentirsi schiavo dell’oggetto ma sembra adesso che il soggetto possa dominare addirittura tutti gli oggetti e tutte le passioni. È questo l’aspetto maniacale dell’apatia anoressica[40]. Se nella bulimia è la passione a sommergere il soggetto, nell’anoressia sembra più forte la passione di non avere passioni; la passione per la sostanza ( il cibo) è per la bulimica come la passione del corpo-magro per l’anoressica.

Per quanto riguarda il vomito c’è un’opinione diffusa che esso appartenga all’universo della bulimia, più che a quello dell’anoressia. In realtà non è così; il vomito nell’anoressica ha radici molto più profonde che nella bulimia, ha un significato simbolico ed un travaglio emotivo che va ben oltre quello della bulimia. Nella bulimia, infatti, il vomito è una pratica “compensatoria” delle abbuffate, è sempre conseguente all’alimentazione. Chi vomita nell’anoressia, invece, solo in una piccola percentuale di casi lo fa per compensare gli effetti di un pasto. Per molte ragazze anoressiche vomitare è un’abitudine molto più silenziosa che nella bulimia, e soprattutto assai più comune di quanto non pensi il senso comune. Le condotte eliminatorie nell’anoressia rientrano infatti nella dinamica del senso di colpa che sottende il disturbo; nell’anoressia nervosa vomitare significa essenzialmente punirsi non tanto per un pasto, ma piuttosto per un pensiero o per un’azione, ogni volta che ci si senta responsabili per non aver tenuto fede al patto di “impeccabilità” fatto segretamente con la bilancia. Per questo motivo il vomito nell’anoressia può avvenire indistintamente a stomaco pieno o vuoto, e in questa seconda condizione il vomito rappresenta un’autopunizione.

 

  • IL PROBLEMA DEL SESSO.

 

Il fatto che l’anoressia insorga, nella grande maggioranza dei casi, dopo la pubertà, aveva fatto sostenere molti autori che tale malattia fosse in stretto rapporto di causalità con lo sviluppo sessuale o con problemi di natura sessuale.

In realtà, come sostiene Selvini Palazzoli[41], per le anoressiche mentali il problema del sesso non è un problema che sta alla base della patologia, infatti la maggioranza delle pazienti non è nemmeno arrivata alla genitalità in senso psicologico. La debole e disintegrata struttura dell’Io mantiene questi soggetti a livelli molto infantili dello sviluppo personale. Il sorgere del problema sessuale connesso allo sviluppo irrefrenabile del corpo mette in evidenza la preesistente fragilità di questi soggetti.

Sommer e Meng sostengono che la crescita corporea puberale spaventa la bambina: essa diventa grande, mentre il suo Io regredisce ulteriormente, imprigionato dalla fissazione.

Lo sviluppo sessuale rappresenta, dunque, un’aggravante, la presa di coscienza di non essere in grado di risolvere adeguatamente, oltre agli altri problemi, anche questo nuovo problema.

Tali ragazze non sono neppure in grado di figurarsi il problema erotico sessuale com’è realmente, nel senso di un impegno e di una scelta auto-cosciente. La maggior parte di loro non lo prende nemmeno in considerazione, lo abolisce del tutto, mostrando una completa indifferenza al solo accenno di argomento.

Ma l’impulso veramente temuto dalle anoressiche, non è quello meramente sessuale, ma quello della soddisfazione orale.

Zutt propone due antinomie, da una parte quella tra appetito ed erotismo e dall’altra quella tra fame e sessualità. Infatti l’appetito e l’eros sono strettamente collegati alla sfera della socialità, sono puramente umani e comportano una raffinata discriminazione sia degli alimenti che dei partner; mentre la fame e la sessualità spingono chi ne è travolto, vinto dall’istinto grezzo, ad una brutale indiscriminazione dei cibi e dei partner. La fame è cieca, rivolta ad un cibo qualunque, qualcosa da afferrare, da mordere, da ingoiare anche di nascosto. La sessualità eccitata è pure cieca, va alla ricerca disperata di soddisfazione, di un altro senza volto. Ma casi del genere sono molto rari, in genere ci si trova di fronte a soggetti del tutto rigidi e paurosi, alla sola ricerca di mantenere il proprio equilibrio entro schemi di vita convenzionali. Queste pazienti non confessano nemmeno bisogni sessuali coscienti; i turbamenti sessuali sono imprecisi, ma sempre temuti. Il loro problema non è quello specifico del dominio sopra la sessualità, ma il problema del dominio sopra la inammissibile sopraffazione delle esigenze corporee ravvisate primariamente negli stimoli della fame. Ciò che conta è il superamento dell’intera corporeità primaria; il sesso che appartiene alla corporeità secondaria viene solo di conseguenza.

 

  • LA FAMIGLIA DELL’ANORESSICA.

In questo paragrafo presenterò i tratti essenziali della famiglia dell’anoressica rifacendomi alla teoria della Palazzoli[42].

 

  • I padri.

 

In molto padri delle anoressiche si è trovato un tratto comune, ossia che appartenevano a famiglie numerose e soprattutto hanno subito la precoce perdita della madre e sono stati affidati a parenti. La loro sofferenza sembra essere stata negata o rimossa; tendono ad idealizzare fortemente i genitori e a presentarli come esenti da quella insufficienza emotiva che invece emerge dai fatti. Contemporaneamente essi idealizzano anche se stessi e non riconoscono le proprie personali fragilità. Hanno, spesso, compensato il loro dolore infantile diventando troppo precocemente efficienti e indipendenti.

Le carenze patite dalla loro famiglia d’origine inducono questi uomini a reazioni difensive che possono essere assai differenti: alcuni reagiscono alla frustrazione diventando vincenti nell’area professionale, altri mantengono solo in casa lo stesso atteggiamento dominante, mentre altri assumono connotati passivi e un po’ depressi. Solitamente gli uni e gli altri assumono atteggiamenti maschilisti e tendono spesso ad evitare il dialogo con la moglie. Sono diligentissimi nel lavoro, difendono con fermezza il loro tempo libero coinvolgendosi in attività in cui la moglie resta estranea; a volte sono violenti e spesso si verificano episodi di perdita di controllo e maltrattamento fisico di moglie e figli. Con i figli sono fisicamente ed emotivamente distanti, non partecipano all’allevamento nei primi anni, delegandolo alle madri o a altre figure, mentre cominciano una qualche interazione con i figli solo a partire dalla loro adolescenza. Questi padri sono dei carenziati che si illudono di essere dei superautonomi, mentre emotivamente dipendono dalla presenza delle loro mogli con le quali mettono in atto uno scambio ingiusto perché chiedono più di quanto sono in grado di dare.

 

  • Le madri.

 

Nonostante la maggior parte delle madri delle anoressiche lavorano, il carico emotivo che sperimentano in famiglia è nettamente differente da quello sperimentato dai loro mariti. Queste donne sono talmente concentrate sul rapporto col marito che non esplorano le risorse affettive di sostegno con cui condividere le esperienze frustranti. Prive di apprezzamento autentico nella famiglia di origine, legate ad uomo come unica risorsa, dipendono molto, emotivamente, dalle sue capacità di sostegno empatico, capacità di cui sono carenti. La madre è spesso una figura dominante all’interno della famiglia, al punto che le figlie femmine diventano succubi della madre, di una madre invadente, intollerante, ipercritica. Infatti le madri delle anoressiche hanno fatto molto per le loro figlie ma senza averne tratto alcuna gioia. Sono donne lamentose non in grado di essere ascoltate con considerazione. Sono molto disponibili a farsi carico senza limiti di compiti altrui, ma al tempo stesso sono incapaci di fare qualcosa per se stesse; raramente sono capaci di divertirsi, scherzare, prendersi del tempo libero per sé, fino al punto di non essere capaci di chiedere aiuto anche in situazioni di emergenza. Si sentono costrette a essere sempre all’altezza delle proprie aspettative, ma sono incapaci di autentici rapporti affettivi, in quanto la componente del dovere coarta la loro disponibilità al contatto interpersonale. Dal momento che fanno fatica ad essere introspettive e a riflettere su di sé, colgono poco anche lo stato d’animo altrui, sia del coniuge che dei figli. A volte sono donne attraenti e di gusto raffinato, che centrano solo su questi aspetti la propria identità sociale, riparandosi così dal profondo vissuto di inadeguatezza che da sempre le attanaglia.

Per cui si può dire che il rapporto di coppia tra i genitori di ragazze anoressiche sembra basato sull’eccessivo adeguamento della moglie, all’inizio della storia, ai bisogni del marito. Di solito i primi tempi del matrimonio sono soddisfacenti. Il marito apprezza nella moglie la premura e la disponibilità affettiva che ha sempre invano desiderato ricevere dalla propria madre. Ma la nascita e l’allevamento del primo figlio coincidono con l’inizio di difficoltà esistenziali, che innescano un processo di escalation sottilmente conflittuale di reciproca insoddisfazione nella coppia coniugale/genitoriale.

 

  • Fratelli e sorelle.

 

Spesso i fratelli o le sorelle dell’anoressica hanno problemi psicoemotivi e relazionali e a volte anche anomalie sul versante sintomatico alimentare. È piuttosto frequente il caso in cui un fratello o una sorella abbiano assunto un ruolo genitoriale che disturba molto la paziente; nella maggior parte dei casi questo ruolo è assunto da fratelli maschi che incarnano spesso modalità maschiliste di controllo simili ai loro padri. Questi giovani faticano ad affermarsi all’esterno tra i pari, o a intessere relazioni amorose. Essi utilizzano la malattia della sorella per assumere il ruolo di “curanti” distanziandosi cosi dai propri disagi e insicurezze che in precedenza li avevano fatti dubitare di se.

Invece, le sorelle vicine per l’età alla paziente assumono più spesso un atteggiamento critico e disimpegnato invece che pseudoeducativo. La tensione competitiva è forte, in quanto la paziente cattura tutte le attenzioni per via del sintomo e la sorella tende a disprezzare la debolezza accentuando così il senso di disvalore che l’anoressica ha. Anche le sorelle possono avere dei segni di disagio: studi inconcludenti, fobie, instabilità affettive nei legami d’amore, atteggiamenti prepotenti e possessivi, difficoltà di identificazione sessuale, spesso anche fasi anoressiche abortive, sono aspetti comuni alle sorelle vicine di età alla paziente. La cosa che colpisce, però, è la loro mancanza di solidarietà per la sofferenza della paziente. Ma indagando la storia personale di ciascuna di esse spesso emergono dei problemi irrisolti non meno preoccupanti di quelli della sorella anoressica.

 

CAPITOLO TERZO

 

RAGAZZE CHE SOFFRONO DI ANORESSIA-BULIMIA CON STRUTTURA PSICOTICA.

 

 

3.1 ANORESSIA-BULIMIA E PSICOSI.

 

La clinica insegna la non possibile e completa sovrapponibilità dell’anoressia- bulimia alla struttura isterica del soggetto, per due motivi: sia che non si deve escludere una anoressia-bulimia a struttura psicotica sia perché all’interno del discorso anoressico-bulimico c’è una disarticolazione strutturale tra desiderio e godimento che non corrisponde a quella della logica isterica.

La posizione del soggetto anoressico-bulimico è caratterizzata da un parallelismo tra il circuito del godimento e il circuito del desiderio.

Dal punto di vista clinico, il circuito del godimento deve essere collocato sotto il segno della pulsione di morte e dell’al di là del principio del piacere, di cui il masochismo offre una concisa rappresentazione quando il soggetto si mostra strutturalmente contro se stesso.

Il circuito del godimento è un circuito chiuso e tale godimento non è provocato dall’Altro, ma dalla cosa; mentre all’Altro è indirizzato il desiderio. Il circuito del godimento invece è autoerotico, coinvolge il corpo ma non l’Altro. Un modello di tale circuito del godimento è rappresentato dalle crisi cicliche della bulimica. In esso il vomito non è in relazione con il mangiare, il riempirsi, ma mette in luce il godimento speciale del vuoto. In un certo senso, come sostiene Recalcati[43], il vomito prefigura l’azione paterna, instaurando una soglia, un limite. La funzione essenziale del vomito è quella di sostituire la funzione paterna nei soggetti anoressici-bulimici a struttura psicotica, cioè la conservazione della propria unità immaginaria minacciata dai vissuti di frammentazione del corpo dovuti alla assunzione di cibo nel corpo. Come sostituto della funzione paterna, il vomito rappresenta una barriera verso l’Altro, che viene identificato come l’oggetto-cibo persecutorio. La bulimica, dunque, mangia per godere del niente che le rimane dopo aver vomitato, mentre l’anoressica trova godimento nel corpo idealizzato. Recalcati[44] parla di un soggetto psicotico che ha una crisi bulimiche, e quando non riesce a vomitare gli parla di un corpo che si è popolato di bestie; di fronte ad un tale inferno delirante che si trova abbastanza frequentemente, il vomito è una pacificazione, mettere fuori dal corpo tutto il godimento maligno, restaurare un’immagine buona del corpo, non deformata, non allucinata. Il vomito fa veramente da barriera all’invasione di godimento maligno; in questi casi non bisogna eliminare questa funzione perché sarebbe far precipitare il soggetto nella frammentazione.

L’anoressia-bulimia non è una struttura, ma un fenomeno che si inserisce all’interno di una struttura, per cui l’anoressia non deve escludere per principio la psicosi. Anzi, proprio per la posizione di blocco rispetto all’Altro materno in cui si trova il soggetto bisognerebbe sempre presupporre una struttura psicotica nell’anoressia. A volte infatti si è di fronte a vere e proprie barriere erette rispetto all’Altro divorante della psicosi. Nella clinica della psicosi, l’anoressia-bulimia funziona come una barriera, una difesa, rispetto all’Altro visto come invasore e folle che vuole godere del soggetto. La bulimica ne prende le distanze attraverso l’evacuazione compulsiva e nel caso in cui il soggetto non riesce a vomitare si possono strutturare dei veri e propri deliri ipocondriaci-persecutori legati alla putrefazione degli organi interni e alla trasformazione mostruosa dell’immagine corporea.

L’anoressica, invece, fa della sua ossessione per il corpo magro un vero e proprio delirio fine a se stesso, ma attraverso tale immagine del corpo magro il soggetto riesce a sostenere un’identità propria che altrimenti sarebbe impossibile. I vissuti di frammentazione e di deformazione del corpo tendono ad apparire quando la barriera anoressica o l’evacuazione bulimica attraverso il vomito non sono sufficienti a contenere la prospettiva maligna dell’altro. Non sono rari i casi, riportati da Recalcati[45], di ragazze che dopo aver mangiato sentivano il proprio corpo riempirsi di presenze strane e invocavano un coltello per tagliarsi la pancia e liberarsi dall’angoscia di sentirsi invasa dall’Altro. Tali compensazione immaginarie cercano, quindi, di completare in modo artificioso ciò che per struttura non si è completato nel soggetto.

Per cui, nella psicosi, l’anoressia-bulimia si può prestare bene ad essere utilizzata dal soggetto come compensazione immaginaria della mancanza di una figura paterna, ma nella teoria di Lacan[46], queste identificazioni immaginarie possono sfibrarsi e lacerarsi definitivamente solo laddove il soggetto incontra nella realtà quel difetto mancante che ne contraddistingue la struttura. L’anoressia consente alla psicosi di mantenersi chiusa, di non scatenarsi, offrendo al soggetto la possibilità di realizzare una sorta di stabilizzazione, attraverso l’identificazione, della psicosi. Quindi, si può dire che l’anoressia-bulimia funge da trattamento pulsionale alle psicosi, dando così origine alle psicosi non scatenate, che sono delle psicosi dove non si arriva al delirio, ma talvolta anche l’anoressia-bulimia non è sufficiente e si ha una esplosione della psicosi vera e propria.

 

  • IL CULTO DEL NIENTE NELL’ANORESSIA.

 

L’anoressia si configura come un culto, un elogio, un fanatismo del niente. Dal momento che si deve ogni volta declinare il fenomeno generico dell’anoressia alla dimensione differenziale della struttura per evitare di considerare l’anoressia stessa come una nuova struttura, si devono distinguere due statuti del niente, ovvero una clinica differenziale del niente[47].

Il primo niente è quello dell’oggetto speculatore, che manifesta l’essenza dell’anoressia come manovra di separazione. Infatti il mangiare il “niente” è un modo per sbarrare l’altro, per ridurre la sua onnipotenza in impotenza e viceversa per emancipare il soggetto dalla sua impotenza, per sganciarlo dalla dipendenza alienante dell’altro. Qui l’anoressia esprime un potere di capovolgimento dei rapporti di forza tra il soggetto e l’altro e il niente è ciò che preserva la differenza strutturale tra il desiderio e la dimensione necessaria del bisogno. Per cui il primo niente salvaguarda il desiderio del soggetto operando una pseudo-separazione dall’altro, pseudo perché la separazione anoressica si consuma come pura attività di negazione. Nell’anoressia, infatti, la separazione dall’altro si configura come un modo per negare la dipendenza strutturale (simbolica) del soggetto dall’altro. Ma questo rifiuto non è una pura esclusione dell’altro, ma è un rifiuto che vale come un appello all’altro. È una forma negativizzata che può assumere la domanda d’amore una volta che ha urtato contro l’assenza di segno d’amore nell’altro, contro un altro che non ha fatto dono della propria mancanza. Il corpo si consuma, si scheletrizza, si fa morire solo per aprire nell’altro una mancanza, per smuoverlo. In questo senso la bruttezza del corpo scheletrico, spesso esibita oscenamente, ha lo scopo di guadagnare una maggiore consistenza, per esistere veramente per l’altro. Per questo motivo il primo niente è in rapporto al desiderio dell’altro, ovvero all’esigenza del segno d’amore; infatti la negazione dell’oggetto-cibo avviene con la finalità di far sorgere il segno d’amore. L’anoressica per fare esistere il segno d’amore deve, dunque, poter rifiutare l’oggetto, la bulimica, invece, attraverso il consumo infinito dell’oggetto cerca di compensare la frustrazione della domanda d’amore, ovvero l’assenza del segno della mancanza dell’altro.

Il secondo niente contraddistingue invece la dimensione psicotica dell’anoressia e dei casi “gravi”. Un niente che a differenza del primo non è in rapporto col desiderio dell’altro ma piuttosto col godimento dell’altro. Mentre il primo funziona come oggetto separatore, il secondo ha un carattere congelato, marmoreo, inscalfibile. Questo secondo niente non è in connessione con l’altro ma esprime un rifiuto radicale dell’altro, una ricerca di godimento che esclude l’altro. Questo secondo niente non investe tanto l’altro ma il corpo del soggetto che si riduce a niente. Si tratta di un a identificazione paradossale del corpo alla cosa, di una mummificazione psicosomatica, il corpo magro deve essere una barriera rispetto al rischio di un divoramento percepito come reale. In questo contesto è molto importante ed emblematico il concetto freudiano del “Principio di Nirvana”; esso indica la tendenza dell’apparato psichico a ridurre a zero il

 

livello di tensione interna. Questa tendenza viene moderata dal principio del piacere che si struttura sull’impossibilità di un ripristino integrale dello zero. Il principio di piacere sancisce così la possibilità di un’omeostasi non distruttiva: l’apparato psichico tende a ridurre al minimo il livello di eccitazione interna, ricerca il piacere ed evita il dispiacere. Ma il principio di Nirvana non è un principio di divisione del soggetto, quanto piuttosto un principio di identità. Nella clinica dei casi “gravi”, l’anoressia non esprime la divisione del soggetto, né si allinea dalla parte della separazione, ma si configura piuttosto come una solidificazione del soggetto. Freud lo descrive come un principio interamente al servizio della pulsione di morte, masochistico, come una sorta di narcotizzazione del principio del piacere[48].

L’anoressia può essere un esempio clinico del disimpasto tra pulsione di morte e pulsione di vita: non è più il principio del piacere a modificare il principio del nirvana, ma è quest’ultimo che si impone come tale, come espressione pura della pulsione di morte. Nell’anoressia “grave”, infatti, il principio di piacere si narcotizza nel principio di Nirvana. La tendenza allo zero diventa una pratica che si realizza quotidianamente; niente deve turbare l’equilibrio interno all’apparato perché ogni turbamento, anche il più piccolo, viene vissuto dal soggetto come un principio catastrofico. La passione per il niente non è qui l’indice di una passione per il desiderio ma è piuttosto l’indice di una passione per l’annientamento; è l’indice dell’attività stessa della pulsione di morte. Questa nirvanizzazione è il modo di funzionamento della anoressiche gravi, strutturalmente psicotiche, che può garantire al soggetto una stabilizzazione immaginaria che riduce l’esistenza del soggetto ad una pura metodica: metodica della riduzione progressiva dell’altro all’uno, metodica che tende a fare del soggetto una sola cosa con la cosa. È questa la dimensione psicotica dell’ascesi anoressica.

 

  • LE DUE PASSIONI DELL’ANORESSICA.

 

Il corpo anoressico-bulimico è un corpo al di là del principio del piacere, o, meglio, è un corpo che illustra come il corpo umano come tale sia strutturalmente iscritto nell’orizzonte dell’al di là del principio del piacere. Freud concepisce il corpo come sospinto da una pulsione di morte radicalmente anti-edonistica. Il corpo non vuole il suo bene, vuole solo trarre godimento; il corpo anoressico-bilumico è un corpo che mostra l’irriducibilità del godimento alla dimensione naturalistico-edonistica del piacere; è un corpo ridotto a pelle e ossa, scheletrico. L’anoressia è una ascesi del corpo senza passione mistica, ma è una passione che si consuma nel nome dell’attaccamento narcisistico alla propria immagine ideale. Il mondo anoressico è un mondo totalmente privo di trascendenza: l’etica qui è al servizio completo dell’estetica che condiziona socialmente l’immagine ideale del corpo magro. Le due passioni fondamentali nell’anoressia sono: la passione per le ossa e la passione per la bocca.

La passione anoressica si consuma allo specchio, nel rapporto di fascinazione mortifera che il soggetto intrattiene con la propria immagine speculare; la passione per le ossa, per la propria immagine scheletrica, è infatti una passione forte quanto quella per la bocca, è una passione che fa dell’ideale del corpo magro un vero e proprio oggetto feticcio. La passione per le ossa mette in evidenza la centralità dello sguardo nell’anoressia: essere pelle ed ossa è infatti un modo per catturare lo sguardo, per causare l’angoscia nell’altro. Tale passione sembra ripercorrere la frattura clinica tra i due “niente” dell’anoressia. Esiste infatti una passione delle ossa che è una modalità per staccare il corpo umano dalla carne dell’animale. È questo il dissidio che attraversa un celebre caso di anoressica psicotica descritta da Binswanger , il caso di Ellen West[49]. La passione per le ossa sarebbe qui la passione per il simbolo che riflette lo spirituale in quanto irriducibile all’animale; il culto per le ossa è un culto prettamente simbolico, umano. Fare emergere le ossa dalla carne è per Ellen West cercare di rimarcare la differenza tra soddisfazione umana e quella animale, dove però la minaccia della degradazione all’animale assume in lei i contorni di un vero e proprio delirio di trasformazione. Se si considera più in dettaglio la passione per le ossa nella clinica dell’anoressia psicotica si entra in un’altra dimensione: l’angoscia di ingrassare, nei casi di anoressia psicotica, è connessa all’angoscia di perdere il valore fallico del proprio corpo. Ingrassare significa che il corpo si stacca dal legame con la propria immagine, che si perde proprio come corpo. Ingrassare è nell’anoressica psicotica l’esperienza di uno scioglimento del legame immaginario tra il corpo e il soggetto. Se il corpo si riempie il soggetto viene espulso dal proprio corpo. Il corpo in questo caso viene considerato come un puro contenitore che non è in grado di assorbire il cibo ma solo di contenerlo. Quindi, si può dire che nella clinica delle psicosi in anoressia la passione per le ossa sia un tentativo del soggetto di ritrovare il proprio corpo. Il soggetto manipola l’immagine del suo corpo non per godere perversamente della contemplazione del loro valore fallico-feticistico, ma solo per poter ritrovare un corpo che altrimenti lo abbandona. L’osso funziona qui come qualcosa che permette al soggetto di riallacciare il corpo ad un’immagine ideale possibile, di mantenerlo prossimo a se stesso. L’osso in altre parole, rivela ciò che aggancia il corpo, l’immagine del corpo, al soggetto, è ciò

 

che sottrae Ellen West dal rischio di trasformarsi in un animale. La formula che può sintetizzare il delirio anoressico nella sua essenza è l’osso è l’anima del corpo. Una funzione analoga viene svolta dal vomito, attraverso il quale il soggetto anoressico può riappropiarsi, ricongiungersi, col proprio corpo. Il vomito è una modalità di ritrovamento del corpo.

La passione per la bocca, invece, è caratterizzata dalla privazione; la bocca anoressica, infatti, è una bocca che sembra privarsi del godimento, al contrario della bocca bulimica che sembra votata alla divorazione di tutto, infatti si può dire che la bulimia è l’espressione più pura della pulsione orale. Ma la divorazione bulimica di tutto conduce allo stesso vuoto che l’anoressica, attraverso la privazione, riesce come a mantenere presso di sé. Se la passione anoressica per la bocca è una passione per il niente, una passione per la privazione, nell’anoressia nevrotica questo è finalizzato essenzialmente a fare esistere la passione del desiderio, cioè chiudere la bocca al godimento per aprirla al desiderio; nella versione psicotica dell’anoressia-bulimia, invece, la passione della bocca non si gioca in rapporto alla dialettica tra desiderio e godimento, la spinta a mangiare si dà senza condizioni fantasmatiche. Il divorare della bulimica psicotica è l’espressione del potere senza limiti del super-io materno. Il soggetto non può dire di no, il soggetto è inchiodato in questo doppio vissuto di intrusione e di abbandono che definisce il suo rapporto con l’altro, cioè la sua impossibilità di articolare tra loro l’alienazione e la separazione. In alcuni casi di bulimia il godimento è tratto solo attraverso il vomito che può consentire una esteriorizzazione parziale del godimento. Qui la passione per la bocca appare come una passione di autodivorazione[50]: la bocca non è una zona erogena, ma è una voragine che aspira il soggetto stesso. Questo si può notare da un’intuizione delirante di una giovane donna bulimica e psicotica, riportata da Recalcati, quando durante una crisi bulimica ha la sensazione angosciante che la carne che mangia sia la sua stessa carne. Nella passione della bocca si tratta dunque di distinguere la bulimia come relazione all’assenza del segno d’amore nell’altro (bulimia come compensazione) dalla bulimia come espressione della pulsione di morte, come divorazione senza limite, come passaggio all’atto, come impossibilità per il soggetto di separarsi dall’altro. Nella bulimia psicotica, inoltre, si ha una fissità, e non una fissazione nel senso freudiano del termine[51], che implica l’impossibilità per il soggetto di negativizzare la cosa materna, di simbolizzare il legame con l’altro materno. Non è una bulimia come trasgressione della legge dell’essere qui in primo piano, ovvero la sessualizzazione inconscia dell’oralità, ma la pulsione di morte allo stato puro.

 

  • IL RAVISSEMENT.

 

Il termine ravissement[52] indica un’esperienza di una perdita radicale, non simbolizzabile, del proprio corpo e del suo valore narcisistico. Da questo punto di vista la fenomenologia del ravissement può investire esperienze diverse che sono accomunate dalla separazione del soggetto dal proprio corpo, esperienze che vanno da quella del rapimento mistico a quella del furto del corpo stesso di tipo psicotico passando per la depersonalizzazione.

Un esempio di ravissement è quello nirvanico, che è uno stato radicale di eclissi del soggetto, qui il sentimento della perdita di sé, di auto-spossamento, viene raggiunto sia nel momento estremo dello sfinimento anoressico che in quello che segna il picco dell’abbuffata bulimica. Il rapimento anoressico è uno stato d’essere che si realizza materialisticamente quando si raggiunge l’impassibilità estrema attraverso una separazione radicale dalla domanda. Questo azzeramento è la dimensione nirvanica del godimento proprio dal ravissement anoressico; nella bulimia invece, lo stato di “non essere” e “non pensiero” è raggiunto attraverso la divorazione, il pieno che può produrre sia l’insoddisfazione che una separazione per l’eccesso. Ma questa separazione può raggiungere il nirvana anoressico: perdita del sentimento del sé, svanimento, annullamento, impassibilità, eclissi, crepuscolo del soggetto. Si tratta di una esperienza di estasi negativa: annullamento del soggetto attraverso un pieno che elimina il pensiero.

Da un punto di vista fenomenologico un’esperienza di perdita del proprio corpo si trova connessa all’angoscia di ingrassare. Ingrassare può essere una vera e propria esperienza catastrofica per il soggetto anoressico, un’esperienza di smarrimento del proprio corpo che talvolta può giungere al limite di una vera e propria depersonalizzazione dismorfofobica. Il corpo grasso non è più percepito come il corpo del soggetto; mangiare e ingrassare possono essere un’esperienza di espulsione del proprio corpo. La dimensione catastrofica e angosciante del grasso sembra così riflettere una estraniazione fondamentale del soggetto rispetto all’immagine narcisistica del proprio corpo: non essere più nel corpo, essere fuori, espulsi, allontanati dal proprio corpo è l’effetto conseguente di questa insufficienza narcisistica dell’immagine. La cui conseguenza è una devastazione dell’immagine che comporta che il corpo si personifichi nello stato di oggetto.

Per quanto riguarda il vomito, esso rappresenta, nelle pazienti anoressiche psicotiche, un sintomo che permette di introdurre un limite al godimento, uno svuotamento del corpo. Il vomito non funziona seconda la logica del disgusto isterico, la quale è orientata alla rimozione e configura l’esperienza di una sorta di piacere negativo. In questo caso il vomito assume i caratteri di un’operazione rudimentale del godimento e non di una realizzazione inconscia del godimento.

Spesso nelle psicosi, le pazienti anoressiche vivono delle vere e proprie metamorfosi del corpo, attraverso delle sensazioni quali il ventre che si gonfia, lo stomaco che si riempie, il volto che si dilata. Tale corpo è sentito come un corpo invaso abusivamente dal godimento. In alcune pazienti, come afferma Recalcati, si possono verificare dei sentimenti allucinatori di tipo negativo come ad esempio che il corpo non esiste più. Dimagrare, restare magri, vomitare sono solo dei modi per ritrovare il proprio corpo, ma soprattutto per estrarre il corpo dalla carne. Infatti per l’anoressica psicotica l’apparizione dell’osso nello specchio ristabilisce un rapporto di proprietà del soggetto rispetto al proprio corpo. Nella psicosi l’osso funziona come una sorta di abito del corpo, cioè ciò che offre un’identità al corpo, ma è anche un oggetto che arresta e frena la metamorfosi del corpo. Nei deliri anoressici l’osso preserva il sentimento della vita del soggetto essendo il punto più intimo al soggetto che gli assicura di avere un corpo. È questa la tesi di un’anoressica psicotica riportata da Recalcati: l’incorruttibilità delle ossa permette al corpo di non disfarsi. Nel delirio anoressico l’osso è l’anima del corpo, è ciò che non si frammenta. Grazie all’osso il soggetto sopravvive alla catastrofe della frammentazione, per cui l’esaltazione dell’osso, è l’esaltazione per ciò che non subisce mai dei cambiamenti, per ciò che resta identico a se stesso. La permanenza dell’immagine narcisistica qui è ottenuta non attraverso l’altro ma per via dell’oggetto. L’osso fornisce alla personalità una nuova immagine narcisistica, una nuova immagine del corpo che prende il posto vuoto del soggetto.

In questo vissuto delirante del corpo, l’osso è ciò che veste la carne. L’osso umanizza la carne, in quanto essere pelle e ossa è un modo per umanizzarsi senza poter fare ricorso al significante. Nell’anoressia psicotica l’osso sottrae il soggetto alla vacuità. L’apparizione allo specchio della morte, dello scheletro è l’apparizione di qualcosa che non causa orrore ma un sentimento di pace nella paziente, in quanto il soggetto di fronte allo scheletro non è di fronte alla propria decomposizione, ma ad una trasformazione in oggetto. La contemplazione dello scheletro per l’anoressica psicotica serve a riassorbire la depersonalizzazione e in questo senso essa non è così diversa dai comportamenti autolesivi di certi psicotiche per arginare la sensazione di irrealtà e di dissolvimento del mondo compiono atti autolesivi col fine di riallacciare il vacillamento del mondo ad un punto fermo, ad una certezza che ancora il senso delle cose.

 

  • PSICOSI NON SCATENATE.

 

Il fenomeno anoressico-bulimico sembra essere caratterizzato da serialità, monotonia, indifferentismo; questo significa che eventuali psicosi non siano facilmente riconoscibili come tali poiché l’anoressia-bulimia offre al soggetto psicotico una sorta di protezione riuscita rispetto al rischio della frammentazione psicotica. In questo caso bisogna considerare ad un livello diverso la differenza tra nevrosi e psicosi e non più dalla presenza o meno di fenomeni elementari quali il delirio o l’allucinazione. Si dovrebbe supporre l’esistenza di un tipo di psicosi al di là della presenza o meno di tali fenomeni; infatti nella clinica dell’anoressia-bulimia non è molto frequente trovare fenomeni elementari veri e propri, mentre è molto più frequente incontrare un funzionamento psicotico del soggetto. In queste circostanze bisogna supporre la presenza di una psicosi non scatenata. Recalcati[53] definisce le psicosi non scatenate “quelle psicosi che sono riuscite a strutturare una supplenza sufficientemente efficace o una compensazione immaginaria capace di stabilizzare un soggetto che patisce della forclusione del Nome del Padre.” Per psicosi non scatenata s’intende un funzionamento psicotico del soggetto senza che però sia rintracciabile un effettivo momento di scatenamento della psicosi. In particolare nella clinica dell’anoressia-bulimia salta all’occhio la frequenza di psicosi chiuse, non scatenate, compensate, dove anoressia e bulimia si precisano come modalità soggettive di chiusura e di compensazione della psicosi, modalità attraverso le quali il soggetto allontana la possibilità dello scatenamento ovvero si mantiene sul bordo della psicosi senza però caderci dentro.

Infatti, se il delirio è il mezzo attraverso il quale lo psicotico ripara “metaforicamente” la realtà invasa dal ritorno del rimosso, usando i termini freudiani, come tentativo di guarigione, il fenomeno anoressico-bulimico preserva il soggetto dallo scatenamento psicotico pur avendo alla sua base il difetto strutturale che caratterizza la psicosi.

La psicosi non scatenata indica una posizione del soggetto diversa da quella della psicosi vera e propria, cioè riconoscibile per i suoi fenomeni elementari, la quale si definisce dalla distinzione dei due tempi precisi: il tempo del soggetto prima dello scatenamento psicotico e il tempo del soggetto dopo lo scatenamento. Dal canto suo la psicosi non scatenata indica una posizione del soggetto diversa da quella delle cosiddette psicosi infantili che senza strappi evidenti si sviluppano in un continuum dall’infanzia alla vita adulta. La psicosi non scatenata si avvicina ad una posizione del soggetto che può essere definita prepsicosi, dove non c’è

 

scatenamento ma il soggetto è vicino ad esso. Inoltre, la psicosi non scatenata che implica fenomeni anoressico-bulimici può essere l’indice di una certa stabilizzazione del soggetto ottenuta proprio grazie alla funzione dell’anoressia-bulimia. In alcuni casi proprio restando agganciato a questo fenomeno anoressico-bulimico che il soggetto preserva la sua identità immaginaria minacciata dall’Altro. Spesso può succedere che la cura dell’anoressia sviluppa lo scatenamento della psicosi e la costituzione di un delirio di persecuzione. L’azione dell’anoressia può contenere quindi una psicosi chiusa, può prevenire lo scatenamento. Quindi a questo livello si possono collocare certe forme di anoressia-bulimia che si caratterizzano per la particolare rigidità dell’identificazione dell’ideale del corpo magro o della passione per l’oggetto-cibo e per la sua evacuazione. Qui il soggetto, diversamente che nelle forme nevrotiche, non aggancia la sua anoressia bulimia ad alcun significante, non associa la concatenazione significante inconscia. Il fenomeno anoressico-bulimico resta fuori dal discorso, non ha alcuna dialettica con l’Altro. Così l’anoressia prende le forme di una inibizione generalizzata del soggetto o di una procedura fobica fine a se stessa. In tutti questi casi , in cui il fenomeno sembra sospendersi e appare del tutto sconnesso all’Altro, bisogna supporre il rischio di una psicosi non scatenata, mantenuta tale proprio da questa fissazione del soggetto all’identità offertagli dall’identificazione idealizzante dell’anoressia o dalla ripetizione bulimica come modo di riesteriorizzare il godimento maligno incorporato.

La categoria clinica delle psicosi non scatenate implica almeno due altre categorie fondamentali: quella di compensazione immaginaria e quella di supplenza, nel senso che la compensazione immaginaria e la supplenza si configurano a loro volta come modi particolari di saldatura soggettiva del buco psicotico. In questo senso esse hanno la stessa funzione ma per un altro verso esse si mantengono differenziate poiché se questa saldatura stabilizzatrice avviene, nel caso della compensazione tramite un’identificazione immaginaria di tipo narcisistico, nel caso della supplenza si tratta invece della messa in opera di una vera e propria azione di godimento in eccesso.

Una delle categorie classiche che può essere individuata come antecedente teorico della problematica delle psicosi non scatenate è il concetto di psicosi latente formulato da Paul Federn[54], il quale nell’articolo “Analisi delle psicosi” affronta la questione facendo riferimento a quelle analisi di nevrotici condotte nel rispetto assoluto delle regole analitiche classiche che ad un certo punto del trattamento manifestano delle scompensazioni psicotiche. Da questo fenomeno clinico che potremmo definire fenomeno delle “scompensazioni psicotiche sotto transfert” Federn deduce la possibilità che esistano delle psicosi strutturali mascherate da nevrosi. In questo senso la psicosi resta latente mentre la nevrosi fenomenica è ciò che si rende visibile. Per questo motivo Federn arriva a distinguere un funzionamento strutturale psicotico del soggetto oscurato da una nevrosi che è invece l’indice di una sorta di autoterapia da parte del soggetto della sua psicosi. Ne risulta quindi come la psicanalisi stessa possa diventare un fattore di scatenamento della psicosi se la psicosi non è fatta tempestivamente[55].

In queste forme gravi di anoressia-bulimia dove si ha un funzionamento psicotico del soggetto in assenza di un vero e proprio scatenamento, l’assenza dei disturbi del linguaggio non è da considerarsi un elemento decisivo per la formulazione di diagnosi psicotica, ma bensì il modo con cui il soggetto struttura il suo rapporto con l’altro e col godimento. Nondimeno una serie di fenomeni che investono il corpo possono funzionare come indici differenziali per indicare una posizione psicotica del soggetto. Se ne posso indicare alcuni.

Il primo è relativo alla presenza di una dimensione di mortificazione reale e non simbolica del soggetto. Essa riguarda quello che classicamente Freud[56] definisce il conflitto pulsionale tra Eros e Tanathos. Clinicamente si esprime come una de-erotizzazione e una de-vitalizzazione del corpo; ma non è il rifiuto isterico, la mortificazione reale del corpo accentua non tanto la divisione tra desiderio e godimento, ma una sorta di abolizione del desiderio dettata dal primato della pulsione di morte. Nella clinica delle psicosi si assiste invece ad uno scioglimento tra Eros e Thanatos , tra mortificazione e erotizzazione, le esplosioni di aggressività, di etero e auto distruzione, i passaggi all’atto, le operazioni di annullamento della vitalità del corpo, tipiche in forme gravi di anoressia, mostrano in atto questo scioglimento tra pulsione di vita e pulsione di morte.

Il secondo fenomeno è una trasformazione della mancanza in un buco del corpo avvertito come reale da parte del soggetto, per cui l’abbuffata bulimica in questo caso non risponde al criterio nevrotico della trasgressione ma tende ad essere una pratica finalizzata a mantenere chiuso il buco simbolico della struttura del soggetto.

Il terzo fenomeno è la presenza costante nella storia di ogni soggetto di persone con le quali il soggetto si è identificato e che hanno funzionato come supporti narcisistici. Il corpo del soggetto si rappresenta del tutto sul corpo speculare dell’altro fino ad aderire integralmente all’intera immagine dell’altro, questa identificazione generalizzata segnala il vuoto d’essere che abita il soggetto psicotico e il suo tentativo di riempirlo attraverso l’immagine dell’altro.

Il quarto fenomeno riguarda le pratiche e le operazioni sul corpo che hanno come finalità ultima, nella privazione anoressica, produrre una devitalizzazione del corpo che realizza a suo modo una sorta di castrazione del godimento, mentre nella bulimia la castrazione prende soprattutto le forme reali del vomito e dell’abuso di lassativi come operazioni che consentono al soggetto di esteriorizzare un godimento maligno che ristagna nel corpo.

Infine, il quinto indice è relativo alla presenza, nella storia del soggetto, di una serie continua di sradicamenti, di cambi improvvisi di direzione, di trasformazioni, di difficoltà di iscriversi in un legame sociale stabile. Questo indice può prendere anche la configurazione di metamorfosi continue della propria immagine, si tratta di una sconnessione del soggetto dal suo rapporto con l’altro[57], nella quale il soggetto dissolve progressivamente il suo legame sociale con l’altro ritrovandosi in una situazione di isolamento progressivo.

Lo scatenamento psicotico indica un’impossibilità del soggetto di trattare in alcun modo il reale godimento. Nel tempo contingente dello scatenamento nessuna operazione soggettiva può infatti contrastare il ritorno del godimento. In alternativa all’effetto devastante dello scatenamento si possono isolare tre operazioni che il soggetto psicotico mette in atto.

La prima è la compensazione immaginaria che si presenta come una modalità di chiusura della psicosi che consiste in un annodamento tra immaginario e reale senza il soccorso della mediazione simbolica. Nella compensazione, infatti, è attraverso un‘identificazione nell’altro che il soggetto argina e contiene il reale godimento, ma in questo caso il soggetto corre il rischio di essere esposto allo scatenamento psicotico.

La seconda operazione è la metafora delirante, che è una produzione immaginaria che però può assumere la funzione di limitare l’invasione di godimento che il soggetto è costretto a subire. Tale metafora delirante suppone quella dello scatenamento essendo essa stessa il modo del soggetto per ricostruire la realtà frammentata dalla crisi psicotica. Con la metafora delirante il soggetto cerca di ridare un senso al mondo, che tenga conto di ciò che avvenuto con lo scatenamento.

Infine l’operazione forse più importante è la supplenza, la quale non suppone che vi sia stato lo scatenamento psicotico.

Poiché si caratterizza per essere l’espressione del modo soggettivo di impedire lo scatenamento, sia la compensazione immaginaria che la supplenza sono modalità di impedire lo scatenamento, ma mentre la prima è orientata verso l’immaginario, la seconda implica un lavoro significante in quanto si configura come un tempo soggettivo “fuori scatenamento”. In questo senso essa indica una sostituzione.

 

  • CONGIUNTURE DI SCATENAMENTO.

 

Si può definire “congiuntura di scatenamento” il momento d’innesco dell’anoressia nella storia di un soggetto, la quale implica una logica rigorosa composta dalla compensazione immaginaria, l’incontro del soggetto col significante di cui è sprovvisto e, infine, gli effetti di rottura che questo incontro produce sulla compensazione immaginaria che ha sino a quel momento hanno consentito al soggetto una certa stabilità identificatoria.

In questi casi, l’anoressia si configura più come una nuova identificazione, ovvero come una soluzione soggettiva che tende a riassorbire una esperienza di rottura o di crisi dell’assetto identificatorio-narcisistico del soggetto. Per cui utilizzare la definizione “congiuntura di scatenamento” deve comunque implicare che l’anoressia sia essa stessa un rimedio, un provvedimento, un trattamento soggettivo di questa lacerazione. La clinica dell’anoressia permette dunque di isolare una molteplicità di congiunture di scatenamento che l’esperienza ci rivela come tipiche. La tesi che l’anoressia sia la risposta del soggetto all’incontro col reale della sessualità, del proprio corpo in quanto campo di godimento, è una tesi che deve essere mantenuta come centrale ma che non ricopre tutte le varie congiunture. Non è nemmeno sufficiente l’ipotesi che riconduce univocamente lo scatenamento anoressico al passaggio evolutivo dall’infanzia all’adolescenza, come l’espressione di una sorta del soggetto verso l’evento della pubertà e dei suoi effetti sull’immagine e sul reale del corpo.

La pratica di Recalcati[58] con soggetti anoressici gli ha permesso di isolare cinque congiunture di scatenamento ricorrenti; un primo caso può essere la risposta che il soggetto da all’incontro traumatico col reale del corpo sessuale. Nelle anoressiche psicotiche la decisione per l’anoressia può funzionare come uno scudo per difendere il soggetto da un godimento maligno, non regolato dalla castrazione, devastatore e non agganciato al significante fallico. Una seconda congiuntura in molte adolescenti anoressiche si sviluppa in coincidenza con viaggi all’estero, vacanze studio, traslochi, periodi di separazione dalla famiglia, oppure l’anoressia può accompagnare, seguire o concludere il tempo di un lutto; comunque in tutte queste situazioni il soggetto è confrontato non tanto al corpo come luogo di godimento, ma come mezzo di separazione dall’altro. Più precisamente l’evoluzione del fenomeno anoressico oscilla tra l’essere una manovra di difesa dalla separazione e una manovra che realizza la separazione come in una sorta di acting della separazione stessa.

La terza ipotesi, proposta da Recalcati, è che le anoressie che si sviluppano in età puberale-adolescenziale spesso trovano la loro congiuntura di scatenamento in una iniziazione fallimentare del soggetto ad una relazione amorosa. In primo piano non è qui tanto l’incontro col corpo come campo di godimento ma le vicissitudini della domanda d’amore. L’anoressia rivela qui la sua profonda affinità con la posizione femminile del soggetto che dipende dal segno d’amore. L’inizio di una relazione amorosa, ma anche solo del discorso amoroso implica necessariamente per il soggetto una specie di salto di vuoto. Il soggetto è confrontato con un’esperienza identificatorio-narcisistica, che è esposta al rischio sempre incombente della possibilità della perdita; in questi casi spesso le ragazze rifiutano il cibo così come rifiutano l’incognita aleatoria dell’incontro con l’altro fanno dell’anoressia l’espressione di anti-amore, in quanto cessano di cercare nell’altro ciò di cui mancano chiudendosi in un narcisismo mortifero dove non ci deve essere più traccia dell’altro. La quarta congiuntura di scatenamento è la rottura della coppia immaginaria, dove il soggetto viene esposto all’incontro con l’altro senza poter più ricorrere all’appoggio immaginario, causando una vera e propria scompensazione psicotica; l’anoressia subentra allora in questi casi come modo di accentuare le differenza con il membro della coppia immaginaria ed è quindi un modo per isolarsi da tutto e per realizzare una forma estrema, psicotica appunto, di separazione. In questi casi l’anoressia consente alla psicosi di mantenersi chiusa nonostante la crisi della compensazione immaginaria, e si presta ad essere una nuova protesi immaginaria per dare al soggetto un’identità che diventi un nuovo “centro” del soggetto.

La quinta ed ultima congiuntura si scatena con l’esposizione al godimento dell’altro; in questi casi l’anoressia si configura come una manovra di trattamento del godimento dell’altro quando questo appare eccessivo e non regolato. La regolazione ferrea a cui si vota l’anoressica può infatti essere una modalità soggettiva (patologica e solitamente fallimentare) per introdurre una negativizzazione di questo godimento maligno senza poter ricorrere alla soluzione edipica.

Nel caso particolare di anoressiche psicotiche è fondamentale interrogare il rapporto eventuale tra lo scatenamento della psicosi e quello dell’anoressia. Esistono a questo proposito molteplici soluzioni possibili: può infatti accadere che l’anoressia sia una risposta transitoria del soggetto che contiene il rischio di uno scatenamento psicotico, oppure un modo per richiudere compensatoriamente una psicosi già scatenata. A volte invece l’anoressia impedisce lo scatenamento psicotico strutturando un’identità immaginaria del soggetto. Si tratta in questi casi dell’anoressia non come metafora sintomatica ma come sintomo che offre un’identità al soggetto. In certi casi di anoressia infantile si vede bene come l’identificazione anoressica può essere il modo col quale il soggetto cura la sua psicosi mettendo tra sé e l’altro visto come minaccioso una barriera rigida del rifiuto anoressico. In questi casi non troviamo uno scatenamento vero e proprio della psicosi perché l’insorgenza dell’anoressia lo impedisce.

 

 

  • LA METAFORA DELLA MADRE-COCCODRILLO.

 

Lacan[59] aveva inquadrato la posizione anoressica all’interno di una serie di patologie quali tossicodipendenze, fenomeni psicosomatici, atti suicidari, che si radicano all’interno del complesso di svezzamento e che implicano una fissazione alla figura materna non superata col passaggio al padre. La paziente anoressica ancora legata alla figura materna attraverso un legame parassitario (caratterizzato da un godimento mortifero) trova l’immagine della madre nell’abisso della morte. Il concetto di complesso racchiude in sé come fattore causale uno stato di carenza (affettiva, cognitiva) rispetto al quale esso svolgerebbe una funzione di supplenza.

Secondo Lacan la fissazione all’immagine materna sarebbe avvenuta in modo incompiuto a livello del complesso di svezzamento, nella fase dello svezzamento orale.

Ma il concetto di complesso racchiude un altro aspetto: cioè l’immagine inquietante del desiderio della madre di divorare il bambino. È questa l’immagine della madre-coccodrillo insaziabile; un’immagine viva in molte anoressiche-bulimiche che vedono la propria madre come interessata solo a se stessa, al proprio appetito. Di fronte a questa voracità l’anoressica mette in atto una strategia di difesa: rendersi non appetibile, fatta di sole ossa, indigesta, per non rischiare di essere divorata. Il limite al cannibalismo materno può essere mosso solo dalla figura paterna, la cui funzione dovrebbe essere quella di creare un posto al soggetto, che altrimenti si ritroverebbe ad essere ridotto ad oggetto del godimento materno. Purtroppo però, l’identificazione anoressica è l’indice di un fallimento del ruolo paterno, che non ha sufficientemente limitato il desiderio della madre. Per cui l’anoressica si trova, per parlare in termini metaforici, nella bocca del coccodrillo e cerca disperatamente di svolgere la funzione paterna attraverso la trasformazione dell’immagine del proprio corpo. Nella posizione anoressica se il soggetto cerca di uscire dalla bocca dell’Altro divoratore rischia di essere divorato; l’unico modo per sopravvivere è quello di restare immobili, in una posizione di totale rifiuto di tutto ciò che proviene dall’Altro.

Un elemento ricorrente nelle storie di anoressia è che il rapporto tra il soggetto e il padre è segnato da qualche forma di assenza, non necessariamente reale, ma è essenzialmente a livello simbolico, cioè il ruolo svolto dal padre non si è iscritto a sufficienza nell’inconscio del soggetto.

 

  • LA METAFORA DELL’ALPINISTA.

 

Prendendo spunto da un testo di Binswanger[60], nel quale l’argomento perno è il concetto di fissazione, ossia di “ideale fissato”, si potrebbe isolare la strana posizione del soggetto anoressico, posizione fatta da un alternarsi di servitù e padronanza rispetto all’ideale che si rincorre fin dall’adolescenza.

La tesi fondamentale di Binswanger è che l’indice di una esistenza non-patologica è l’equilibrio interno a ciò che mette in relazione la dimensione dell’altezza (spinta verso l’altro) con quella dell’ampiezza dell’esperienza (spinta verso l’ampliamento). Quando questa proporzione tra il verticale e l’orizzontale, tra la dimensione dell’elevazione e dell’ampliamento dell’esperienza, è alterata si verifica una declinazione psicopatologica dell’esistenza.

Binswanger, per chiarire questo concetto, utilizza l’esempio della psicosi maniacale e della schizofrenia. Nel primo caso si verifica un’accentuazione dell’allargamento dell’esperienza in superficie, per cui il soggetto è costantemente in movimento, in azione, disperso in una progettualità inconsistente. Cargnello definisce questo stato una “festinazione verbo-mimico-motoria”[61], una definizione che da l’idea di un comportamento orientato nel senso della dilatazione, di tipo “velleitario” dei confini dell’esperienza, immaginario e che non realizza nulla nella realtà; ne sono un esempio tutti i tratti del maniacale che sono i segni di un dispiegamento solo apparente dell’esistenza che resta in realtà bloccata in una inconcludenza di fondo, nell’incapacità di progettare qualcosa. Il soggetto maniacale non si ferma su niente ma è costantemente mosso da un’eccitazione di base che lo svuota.

Al contrario, nella prospettiva schizofrenica si ha un’esaltazione sbilanciata dell’elemento verticale. Questo, infatti, è il punto occupato dal delirio che scioglie il soggetto dal legame col mondo dell’esperienza.

La fissazione anoressica potrebbe essere descritta come una fissazione della verticalità a scapito dell’orizzontalità dell’esperienza[62]. È evidente l’alterazione caratterizzata dalla messa in campo di un’alternativa rigida: il soggetto “fissato” si trova di fronte ad una alternativa impietosa e rigida tra il mangiare e il non-mangiare. Nell’anoressia-bulimia tutto l’orizzonte esistenziale si riduce a questa alternativa; l’anoressica sceglie allora la via verso la massima verticalità, della trascendenza, dell’ascetismo, della fissazione all’Ideale, al contrario la bulimica esaspera la dimensione dell’orizzontalità disperdendosi vanamente in essa.

Un’immagine molto suggestiva proposta da Binswanger rappresenta molto bene la posizione in cui si trova l’anoressica: è quella dell’alpinista che si è spinto così in alto nella scalata da non essere più in grado a fare un passo, né a scendere, né a salire. Esso si trova perso in un’altezza che non sa più come padroneggiare, in quanto qualsiasi movimento diventa un’insidia mortale. È questo il senso dalla fissazione: il soggetto si fissa ad un Ideale che lo salvaguarda nel tempo ma lo blocca completamente. Questa sensazione di “intrappolamento verticale” si riscontra molto spesso nei discorsi delle anoressiche, le quali sentono di essere salite troppo in alto nella fissazione dell’Ideale di corpo magro tanto da mettere a repentaglio la loro esistenza; per cui il “troppo alto” anziché rappresentare un punto di salvezza espone al rischio mortale; e purtroppo il soggetto non è più in grado di abbandonare tale posizione perché si trova incatenato, proprio come l’alpinista spintosi troppo in alto. Questa immagine dell’alpinista è molto efficace per descrivere l’esaltazione mortifera dell’anoressica; il passaggio adolescenziale viene qui risolto attraverso un’amplificazione patologica (verticalizzazione estrema) dell’io-ideale.

  • UN CONTRIBUTO DALLA MEDICINA.

 

Numerosi studi sono stati fatti anche nel campo medico, dove numerosi studiosi e psichiatri hanno cercato di dare una spiegazione ai sempre più numerosi e difficili casi di anoressia-bulimia in un contesto psicotico.

Ne sono un esempio gli autori Boning e Kachel, i quali parlano di sindrome metamorfica nell’anoressia[63]. Questi autori sottolineano come ci siano tuttora punti di vista controversi riguardo molti aspetti dell’anoressia ma un punto che tiene uniti tutti gli studiosi è che l’anoressia è considerata come una malattia psicopatologica con caratteristiche bio-psico-sociali e che questa sindrome si sviluppa principalmente nel periodo vulnerabile dell’adolescenza. Questi autori hanno notato che nel corso della malattia si potevano verificare degli spostamenti della sintomatologia psicopatologica verso uno stato psicotico, depressivo, o non psicotico. Episodi di psicosi nell’anoressia nervosa sembrano, secondo questi autori, avere forme atipiche, breve durata e di guarirsi completamente e nel corso di questi episodi psicotici, il soggetto mantiene ancora i suoi sintomi anoressici.

Un altro autore, Howard[64] prende spunto da un caso di una ragazza di 14 anni la quale prima divenne anoressica e solo successivamente sviluppò una psicosi, ma nel momento in cui comparvero dei sintomi psicotici (deliri di persecuzione e allucinazioni uditive), la ragazza non ebbe più problemi alimentari. Questo autore sostiene che il quadro clinico dell’anoressia nervosa può essere un’espressione di un danno cognitivo che provoca anche manifestazioni psicotiche.

Shulwolf e Marthe[65] considerano l’anoressia nervosa come una esagerata struttura di difesa introiettiva contro i bisogni analitici e propongono quattro variabili che possono essere classificate o come analitiche o come introiettive ( la comparsa della psicosi, la qualità della psicosi, il contenuto della psicosi e i processi di guarigione); per quanto riguarda il contenuto e la qualità delle psicosi si può fare una differenziazione tra due tipi di psicosi: una psicosi introiettiva che rappresenta una difesa ai livelli più primitivi dell’anoressia nervosa; una psicosi analitica che è il risultato della disintegrazione della difesa che porta l’io ad essere invaso dai bisogni.

Un altro contributo interessante è, a mio avviso, quello proposto dagli autori Hugo e Hubert Lacey[66], i quali hanno osservato che i disordini alimentari servono come difesa contro la gravità dei disturbi psicotici. Nel loro articolo i due autori vogliono dimostrare come a volte dei trattamenti del disturbo alimentare possono provocare sintomi psicotici. Gli autori hanno riportato una lunga serie di casi clinici in cui si ha la duplice diagnosi di anoressia nervosa e psicosi; due caratteristiche emergono in particolare: o i casi in cui la psicosi esiste indipendentemente dall’anoressia (Ferguson e Damluji, 1988; Hsu, Meltzer e Crisp, 1981) o i casi in cui la psicosi è passeggera e può essere ad essa correlata (Dally, Gomez e Isaacs, 1979; Morgan e Russel, 1975).

Infatti ci sono due possibili modi correlazione tra anoressia e psicosi, per questi autori; essi riportano casi in cui ragazze anoressiche giunte ad uno stadio di gravità vengono ricoverate in ospedale con urgenza e solo a quel punto dopo alcuni giorni di ospedalizzazione emersero dei gravi sintomi psicotici, in questo caso la cura, anche se parziale dell’anoressia, svela il sottostante disturbo psicotico che veniva coperto dall’anoressia stessa; oppure gli autori riportano casi in cui le psicosi sono solo delle manifestazioni secondarie dell’anoressia e emergono solo in casi molto particolari e comunque passeggeri come, per esempio, conseguenza del digiuno.


CAPITOLO QUARTO

 

FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO ANORESSICO-PSICOTICO.

 

  • IL TRATTAMENTO DI GRUPPO.

 

Questo tipo di trattamento si è sviluppato a partire dagli anni Ottanta, riguardo soprattutto alla bulimia.

Alcuni autori sostengono la tesi che il gruppo rappresenti una risposta efficace da contrapporre al bisogno di appartenenza, ai sentimenti di isolamento provati da una paziente affetta da anoressia. Viene definito un luogo sicuro che dà sostegno e permette di sviluppare ed esprimere sentimenti e rapporti di fiducia che possono andare a sostituire il rapporto autodistruttivo verso il cibo[67]. Molto differente è l’apporto di Tridenti e Bocchia[68] che evidenziano il debole successo di tale forma di trattamento da imputare, principalmente, alle diverse difficoltà nel gestire questo tipo di pazienti: la loro rigida ed ansiosa chiusura, la difficoltà di comunicazione nelle relazioni sociali, l’incoscienza dei loro sentimenti, l’atteggiamento di rifiuto che si manifesta nella perdita di peso. Tutto ciò all’interno di un gruppo di terapia andrebbe ad invalidare il processo terapeutico, a causa dell’incapacità del soggetto a sostenere tale situazione. La Hall (1985) stabilisce dei criteri tali per cui la terapia del gruppo avrebbe maggiori possibilità di successo:

– una selezione dei soggetti, con un certo ripristino del peso corporeo e dello stato fisico;

– soggetti altamente motivati;

– soggetti che hanno tratto beneficio psicologico da altri trattamenti;

– soggetti non del tutto isolati;

– soggetti con una certa capacità di esprimere sentimenti;

– soggetti con cui può essere utile un intervento combinato con altre terapie;

– soggetti che abbiano caratteristiche tali da poter essere accettati dal gruppo.

Un gruppo di solito è formato da 5/12 persone che incontrano un terapeuta settimanalmente. Esistono diversi tipi di gruppi: di sensibilizzazione, di discussione, di terapia, di autoaiuto. Alcuni si concentrano sul disturbo alimentare e sul significato del cibo nella vita del soggetto; l’attenzione in questi casi è posta sul come si verifica il comportamento alimentare e sui tentativi di cambiarlo per sviluppare modalità più sane. Questi gruppi seguono spesso una linea cognitivo-comportamentale, funzionano con un limite di tempo e sono organizzati in modo da durare da diverse settimane a diversi mesi. All’interno di questi gruppi non si fa terapia, i membri si sostengono a vicenda e chiedono informazioni spesso di tipo pratico sulle diete, sul corpo, sul cibo. Di solito è presente un conduttore esterno che garantisce un’informazione accurata e fornisce un modello relazionale di tolleranza e non competitività, ne sono un esempio i “gruppi Sure” (supporto reciproco) del Centro Didasco diretto da B. Bauer.

Altri gruppi sono ad orientamento psicodinamico e non si concentrano esclusivamente sui comportamenti alimentari, ma affrontano nel contempo il conflitto intrapsichico che ne è alla base. Di solito non hanno un limite di tempo; ne sono un esempio i “gruppi dell’Aba” fondata da F. De Clercq. Sono piccoli gruppi terapuetici di 8/10 soggetti con uno o due conduttori che sono psicoanalisti o psicoterapeutici, i quali poi partecipano a incontri di aggiornamento ed informazione. Hanno una composizione mista, tra pazienti anoressiche e bulimiche, ma sono definiti monosintomatici in quanto i membri condividono la stessa passione per il cibo. L’esperienza del gruppo Aba viene definita da F. De Clercq[69] un’esperienza di parola ed ascolto, dove le donne invisibili diventano visibili in quanto nessuno le rifiuta, le giudica, ma viene garantito loro un certo livello di appartenenza, che permette al soggetto di poter prendere parola e scambiare sensazioni e pensieri, favorendo in questo modo l’uscita dall’isolamento. Attraverso il gruppo viene fornita la garanzia di un’identità, partendo dalla ratifica della formula “sono un’anoressica” come strategia terapeutica, per potersi garantire un punto di partenza condivisibile[70]. Il gruppo sarebbe uno strumento terapeutico particolarmente adatto al trattamento di questa patologia perché offre la possibilità di confrontarsi con altre persone, affrontando così le fantasie inconsce di divoramento associate all’idea di un rapporto con l’altro. Il lavoro psicoterapeutico di gruppo si baserebbe essenzialmente sull’analisi della storia psichica personale e su come essa si drammatizza, si intreccia, si confronta nel processo di gruppo.

Anche Lai (1992) considera il gruppo luogo elettivo, “una passione di attrazione” per le pazienti; esse infatti trovano sollievo nel gruppo e desiderano appartenervi, spinte dal desiderio di essere uguali agli altri membri, condividere con loro passioni ed emozioni. In questo senso Lai parla di medesimezza, all’interno di un quadro antropo-cosmologico elaborato dall’autore, il quale dispone ai vertici di tale quadrato altre passioni a cui possono essere correlati i rapporti relazionali all’interno di un gruppo: la differenza, il distacco e l’indifferenza. La medesimezza ha il suo contrario nella differenza, intesa quest’ultima come movimento di distinzione del soggetto dagli altri e ha il suo contraddittorio nel distacco, in quanto più radicale della differenza, il soggetto infatti tende ad allontanarsi dagli altri membri del gruppo. L’indifferenza, invece, che segnala l’abbandono della vita di gruppo, si contrappone alla differenza, ma è anche il contrario del distacco. Finché c’è medesimezza verrà stabilito dai membri del gruppo una forte condizione di comunione e partecipazione, al punto che il conduttore dovrà limitarsi ad ascoltare ed osservare, per evitare che i movimenti della medesimezza che funzionano da sé vengano infranti.

 

  • GRUPPI MONOSINTOMATICI: QUALI RISCHI E QUALI VANTAGGI?

 

Col termine “gruppi monosintomatici” solitamente ci si riferisce a gruppi psicoterapeutici con pazienti che presentano una sintomatologia omogenea. Le aree d’intervento oggetto di sperimentazione più frequente negli ultimi vent’anni sono state: quella della tossicodipendenza, dell’anoressia/bulimia e quella della malattia terminale. Nel lavoro da cui ho preso spunto, Fiora Pezzoli[71] si occupa solo delle prime due aree.

Come è noto, l’opinione dei classici della psicoterapia di gruppo non è favorevole all’utilizzo di questo strumento in presenza di patologia omogenea tra i membri del gruppo.

Foulkes, ad esempio, pur non ritenendo utile “parlare degli individui in termini di etichette convenzionali e rispondere in questi termini alla questione dell’indicazione e della controindicazione” reputa che per la costituzione di un gruppo di psicoterapia “uno dei punti più importanti da tenere presente (sia) il bagaglio culturale generale, lo status sociale, l’intelligenza e l’età. Questo è assai più importante delle diagnosi formali che sono preferibilmente eterogenee.” [72]

Altri autori (E.Nash, J.A.Johnson, J. Frank, N. Loche) ritengono controindicato il gruppo per tossicomani e alcolisti. Yalom (1970) paventa per questi pazienti il rischio che alberga nella loro tendenza al passaggio all’atto. Altri autori come Slawson (1964), A.Wolf e E.K. Schwartz (1970), estendono la controindicazione anche ai perversi, agli ossessivi e ai fortemente narcisisti. Diciamo che ci sarebbero stati pareri sufficientemente autorevoli per scoraggiare ogni tentativo di cura gruppale con pazienti monosintomatici.

Nei fatti però le cose sono andate diversamente. Va ricordato che tra gli anni Trenta e Sessanta si sono diffusi i gruppi di auto-aiuto con finalità di sostegno reciproco nell’affrontare le difficoltà collegate a specifiche patologie particolarmente invalidanti (diabete, tumori, infarti, miastenia grave, malattie mentali, paralisi, malattie ossee ecc). La tendenza degli individui a raggrupparsi tra simili per tentare di curarsi è spontanea e rispecchia la naturale propensione umana alla socialità. Infatti i gruppi di auto-aiuto si sono costituiti sulla base di una spinta interiore che va al di là di qualsiasi teorizzazione terapeutica. In essi l’obiettivo prioritario è quello di ovviare alla solitudine e all’esclusione sociale che caratterizza molte situazioni di disagio per tentare di trasformare un’esperienza negativa in qualcosa di costruttivo e proficuo (A.H. Katz e E.I. Bender 1976).

I gruppi di auto-aiuto possono essere considerati come i precursori degli attuali gruppi terapeutici monosintomatici. Infatti gli psicoterapeuti e gli psicoanalisti si siano trovati di fronte ad una realtà che aveva già assunto in modo autonomo una sua fisionomia, che si presentava in una forma nuova

 

a livello sociale e che risultava stimolante per la sperimentazione. D’altronde Foulkes ma soprattutto Bion[73] si erano trovati ad utilizzare la loro formazione psicoanalitica in situazioni assolutamente non canoniche e le loro riflessioni hanno costituito un incentivo per indagare nuovi campi ed individuare nuovi strumenti utili anche allo sviluppo delle teorie psicoanalitiche. Si assiste a fenomeni di “contaminazione” tra ambiti diversi senza, per ora, essere in grado di valutarne gli effetti. Le cosiddette “patologie della dipendenza”, che riuniscono sia il fenomeno della tossicodipendenza sia quello dell’anoressia/bulimia come rifiuto/dipendenza dal cibo, costituiscono una categoria spuria in quanto in essa possono rintracciarsi strutture di personalità diversificate.

Tuttavia possiamo notare che i pazienti che formano i gruppi di cui stiamo parlando, presentano in maniera diffusa un difettoso svolgimento dei processi psichici che regolano la trasmissione della vita psichica tra le generazioni. In particolare modo i fallimenti nella formazione delle identificazioni, cosa che conduce a gravi difficoltà nello stabilire legami affettivi e, come dice Kaes (1998), sono un intralcio alla costituzione di ” un’alterità interna soggettivata”.

L’identità personale si forma attraverso una serie di processi di identificazione che si verificano durante la crescita e che hanno un ruolo centrale nel determinare la capacità di creare relazioni oggettuali. Inoltre l’identificazione è l’operazione attraverso cui si fonda la struttura interna dell’Io e del super-io; perciò ogni evento che ostacola o distorce questo processo non potrà non avere ampie ripercussioni sulla personalità dell’individuo. L’evento patologico che sfocerà poi in condotte tossicomaniche o anoressico/bulimiche può perciò collocarsi ai vari livelli del processo identificatorio. In molti casi il fallimento risale alle fasi più arcaiche dello sviluppo mentre in altre a quelle più avanzate.

L’identificazione primaria, cioè il modo primitivo di costituzione della propria soggettività sul modello dell’altro si sviluppa se l’ambiente intersoggettivo in cui il neonato è immerso è in grado di garantire uno spazio mentale perché l’Io possa formarsi ed evolvere in una progressiva differenziazione dall’altro in forza della “rinuncia pulsionale” dettata dal “divieto” rappresentato dalla metafora edipica.

In generale si può dire che quanto più è fragile il narcisismo parentale tanto maggiori sono le aspettative rivolte ai figli che si trovano sommersi nel magma ossessivo del narcisismo patogeno dei genitori e impediti nella costituzione di una alterità interna.

Possiamo perciò dire che il fenomeno dell’associazionismo anonimo trova la sua motivazione proprio in una esigenza intrinseca alla patologia stessa; come dice de Polo (1998) “l’individuo o gli individui che si sentono messi in discussione al livello dei propri sistemi di riconoscimento sono costretti a cercare nel legame di gruppo una nuova versione della propria ideologia personale riguardante le proprie origini. Sentirsi simili è la premessa per il recupero di una sicurezza di Sé”[74]

Tanto lo schema ascetico dell’anoressica quanto l’infinita compulsione della bulimica e del tossicodipendente procedono secondo il principio di esclusione dell’Altro. Inoltre, anche buona parte dei comportamenti violenti, autoaggressivi o eteroaggressivi propri delle posizioni tossicomaniche e anoressico/bulimiche possono farsi risalire all’incapacità di riconoscimento dell’Altro[75].

Le ricerche sia in campo neurologico/psichiatrico sia in campo psicoanalitico hanno evidenziato connessioni tra tali condotte e le alterazioni inquadrabili nella trasmissione transgenerazionale della vita psichica legate all’attività del Preconscio quali: scomparsa precoce dell’oggetto, disturbi della separazione, traumi cumulativi e sovradeterminati, lutti non elaborati. Come dicevo, l’identificazione primaria “diretta, immediata, precedente ad ogni concentrazione su di un qualsiasi oggetto”[76] si stabilisce nelle primissime fasi della vita ed è collegata al consolidarsi di un legame di attaccamento primario e all’esperienza dell’illusione. Ora, proprio questa identificazione, questo attaccamento, questa illusione sono disturbati o impediti dalle condizioni ambientali sopraddette. Esse interferiscono o addirittura inibiscono la costituzione del sistema Preconscio che, essendo retto dal processo secondario, rende possibile l’accesso alla simbolizzazione, al linguaggio, alla categoria della differenza (tra i sessi e tra le generazioni) e a quella del nome (cioè il sistema di definizione dell’identità propria e altrui).

Così definito il tipo di disturbo prevalente nei pazienti che si coagulano intorno ad una sintomatologia, si può ora cercare di individuare quanto i gruppi monosintomatici facilitino il processo terapeutico e quali problemi teorici e tecnici aprono.

Innanzitutto si pone un problema di tipo logistico, non tanto nei termini di reperimento di pazienti, che, come è noto, si presentano numerosi alle specifiche istituzioni di riferimento (Sert, Centri per il trattamento dei disturbi alimentari ecc.) ma quanto alla possibilità concreta di una loro regolare presenza nei gruppi. A questa difficoltà si sono trovate delle risposte concrete che prevedono che qualcuno (a volte un genitore o un

 

parente o un amico o un operatore ecc.) si faccia carico di accompagnare il soggetto alla seduta per il periodo necessario ad una assunzione dell’impegno in prima persona. Però, anche se così il problema risulta in parte ovviato, rimane comunque il fatto che queste persone arrivano alla psicoterapia raramente per libera scelta ma molto più frequentemente per un impasto di costrizioni, spinte autonomistiche, ricatti, desideri di rivalsa, disperazione. Viene reso perciò necessario ed indispensabile un “contenimento” fuori dalla psicoterapia.

Un altro problema tecnico è costituito dal “pagamento”. Nei gruppi per tossicodipendenti e per anoressiche/bulimiche solo raramente i pazienti stessi provvedono economicamente al pagamento della psicoterapia. Per lo più sono le istituzioni pubbliche che indirettamente si accollano questo onere oppure lo fanno i genitori. Viene a crearsi perciò una sorta di collusione tra le fantasie onnipotenti dei pazienti e la realtà della terapia. Spesso, trattandosi di persone che ritengono di essere in diritto di avere un qualche risarcimento per ciò che è loro mancato, l’assenza del pagamento in prima persona sollecita fantasie revanchistes.

Inoltre la psicoterapia si svolge solitamente all’interno di una istituzione collegata ad altre istituzioni, tra cui quella inviante che ha il compito di formulare il progetto complessivo che, in molti casi, comprende anche spazi dedicati ai genitori o ai parenti del paziente. Come si vede la psicoterapia, in questi casi, costituisce solo un momento di un intervento molto più articolato e perciò soggetto a disorganizzazione e disguidi. Quanto tutto ciò si ripercuote sull’andamento psicoterapeutico non è stato ancora sufficientemente studiato. Per di più, nel vasto panorama dei gruppi terapeutici monosintomatici, molteplici sono gli approcci e i modelli di riferimento che vengono utilizzati (sistemico, gruppoanalitico, comportamentista, conversazionalista) e, quantunque siano state effettuate delle ricerche nel tentativo di conoscere le linee di tendenza più seguite, l’esiguità dei campioni e la scarsità delle risposte hanno reso i risultati poco significativi. Lo scenario rimane perciò variegato e vago.

Ma, ritornando ai gruppi a conduzione psicoanalitica, l’elemento che coralmente viene indicato come terapeutico è quello della condivisione della sofferenza. La sofferenza di doversi nascondere o esibire in una coatta dinamica degli opposti. Pensando al fenomeno dell’anoressia/bulimia, c’imbattiamo quasi sempre in situazioni lungamente tenute nascoste affiancate dal relativo carico di angoscia di poter essere scoperte. In entrambe le situazioni vediamo che è affidato al sintomo il compito di rivelare il malessere psichico sottostante. Soggiacente all’angoscia relativa allo svelamento vi è il desiderio di esibire la propria fantasia di autogenerazione sostenuta dalla difficoltà d’identificazione e di riconoscimento delle proprie origini.

Non si può dire che nei gruppi monosintomatici i pazienti siano tutti uguali e che l’unicità della persona venga a mancare ma che le gravi carenze o la mancanza della funzione della simbolizzazione può impedire che si avvii il processo terapeutico. Questo avviene quando il livello di “omogeneità” è troppo elevato. Da qui l’importanza della selezione dei partecipanti al gruppo.

Ma in un gruppo monosintomatico può avviarsi il processo terapeutico solo se ciascun componente si trova, rispetto agli altri, ad un livello diverso del processo identificatorio. In caso contrario ci si troverà di fronte ad una sequela di “passaggi all’atto” che sgretoleranno il gruppo e impediranno il suo costituirsi. A questo proposito mi sembrano molto interessanti gli studi di Kaes sullo sviluppo del sistema Preconscio. Egli afferma: “la formazione e l’attività del Preconscio ha come condizione quella di essere iscritta nell’intersoggettività. Nel processo associativo e specialmente nelle sue modalità gruppali, l’attività del Preconscio di un soggetto si mette al lavoro o si inibisce nel contatto con l’attività psichica preconscia di un altro soggetto: come nei primi tempi della differenziazione dell’apparato psichico, la formazione del Preconscio è tributaria dell’Altro, essenzialmente dalla sua attività di rappresentazione di parole indirizzate a un altro. Il processo associativo nel gruppo funziona come un dispositivo di metabolizzazione che rende possibile il rilancio dell’attività del Preconscio utilizzando tutte le risorse dei processi primari, secondari e terziari.[77]

La psicoterapia di gruppo risulta quindi particolarmente utile ai soggetti di cui ci stiamo occupando proprio in quanto promotrice di un “rilancio del Preconscio” che permette loro di colmare il deficit strutturale attraverso il processo associativo gruppale che fornisce a ciascun partecipante la possibilità di trovare nell’altro “la parola che gli fa difetto nel momento in cui è senza rappresentazione di parola”[78].

Il lavoro terapeutico con gruppi monosintomatici è molto oneroso ma non privo di prospettive. Trattandosi di patologie che invadono molto aspetti della vita del paziente risulta indispensabile approntare strumenti ampi e collegati gli uni agli altri. Ma è proprio l’estensione e la complessità dell’intervento a provocare difficoltà consistenti sia in termini organizzativi sia in termini metodologici.

 

 

  • FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO PSICOTICO.

 

  • La logica psicotica del gruppo.

 

Quando si parla di gruppo si possono reperire delle “istanze”. Da questo punto di vista credo che un riferimento ci possa aiutare: gli studi di Bion sui piccoli gruppi. All’interno di un gruppo, sono in questione parecchi livelli, in particolare un livello di illusione. Primo livello di illusione: quando si decide di fare un gruppo di lavoro, nel giro di qualche seduta spesso il gruppo si esaurisce; oppure va avanti, ma in quel caso è molto difficile che il tema prescelto venga seguito. E’ in questo senso che Bion parla di “ipotesi di lavoro”, che può essere mantenuta solo se si fa un’analisi costante di tutto ciò che è soggiacente all’ipotesi di lavoro, ciò che lui chiama “gli assunti di base”: dipendenza, accoppiamento, attacco-fuga. C’è tutta una complessificazione per cui non si tiene conto degli assunti di base, se non li si “tratta” a mano a mano che emergono, ci sono molte probabilità che il gruppo di lavoro stesso degeneri. D’altra parte Bion mette l’accento sulla logica particolare dei gruppi: è una logica vicino alla logica psicotica. Sappiamo bene che in un gruppo di una decina di persone, ogni persona ha la tendenza a prendere posizioni del tutto diverse da quelle che avrebbe al di fuori del gruppo; posizioni spesso di passività, approfittando del fatto che alcuni parlano e altri no, per delegare, più o meno coscientemente ciò che ha da dire ad altri, pronto ad intervenire dopo, magari per dire il contrario. C’è dunque una specie di dissociazione delle istanze. Per esempio qualcuno del gruppo andrà ad incarnare l’ideale dell’Io e ciascuno delegherà ad altri il proprio ideale dell’Io, o il suo Io ideale o il suo super io, o i suoi sensi di colpa. Se non si ha una certa coscienza di queste cose, si avrà una deriva che tenderà a creare conflitti, sotto forma di aggressività o di seduzione, o di fenomeni di accoppiamento, come dice Bion, che creeranno isolamento nel gruppo e faranno abbassare il rendimento sia terapeutico che informativo. Questa logica, “logica psicotica” è una cosa banale con cui bisogna confrontarsi quando si lavora in qualsiasi gruppo, che sia di informazione, di diagnosi o di terapia.

Per quanto riguarda i fenomeni che si svolgono all’interno del gruppo, questi si pongono ad un livello “protomentale” così come lo definisce Bion[79]. Per esempio fenomeni di suggestione, fenomeni di transfert, transfert parziali, più o meno ben controllati. Ma allo stesso modo sorgono dei fantasmi. A seconda del grado di possibilità di espressione si potrà con facilità raccontare i propri sogni, situarsi, o anche creare un ambiente veramente asfissiante. Un gruppo mal controllato è estremamente pericoloso, o quanto meno inefficace.

Certi gruppi sviluppano esplicitamente una specie di finalità. Possono essere utili a chiarirci il ruolo dei gruppi nella terapia delle psicosi. I gruppi possono fomentare meccanismi di isolamento o di protezione rispetto al contesto, rispetto all’ambiente circostante. Si può assistere allora, in statu nascendi, alla formazione di “para-eccitazioni” nel senso freudiano del termine. La para-eccitazione è qualcosa di banale, di molto arcaico, che permette al futuro soggetto di distinguersi da ciò che lo circonda. La para-eccitazione appare come una specie di filtro, ha come funzione di cercare di regolare i problemi di intrusione massiccia di tutto ciò che succede nell’ambiente. Freud la definisce sempre in rapporto con i problemi di traumatismi di fissazione. Questa para-eccitazione è in relazione con la rimozione originaria, a partire dalla quale si sviluppa una struttura. A titolo di ipotesi si potrebbe dire che la struttura psicotica risulta da una certa carenza o distruzione del sistema di para-eccitazione, da una difficoltà a livello della rimozione originaria, ciò che provoca disturbi profondi nella strutturazione della persona.

Allo stesso modo si constata che personalità psicotiche, prese nei gruppi, delegano facilmente sia l’Ideale dell’Io che il Super Io, che la para-eccitazione. Elementi che allora vengono gestiti nel gruppo. Si tratta di studiare il funzionamento di certi gruppi psicoterapeutici. Vi si nota l’influenza anglosassone, a partire da alcuni lavori di Foulkes. Gli autori distinguono due tipi di gruppi: i gruppi aperti, instabili, i gruppi in cui i partecipanti possono uscire e altri possono entrare senza che sia stabilito per contratto in modo assoluto, si assiste a fenomeni più profondi che nei gruppi stabili, chiusi. Questi restano ad un livello più di adattamento. E’ nei gruppi aperti che i soggetti psicotici possono essere trattati, molto più che nei gruppi chiusi.

Per quanto riguarda la logica dominante che rende un gruppo efficace l’autore, Jean Oury[80] dapprima fa riferimento alla logica “psicotica” di cui parla Bion, ma a suo avviso è troppo approssimativa in quanto si dovrebbe tenere conto nello stesso tempo e senza contraddizione sia del gruppo che della persona nella sua singolarità.

Per cui l’autore fa riferimento ad un’altra logica molto più importante nel lavoro nei gruppi: la logica del vago di cui parla Peirce in opposizione alla logica del generale.

La logica del vago coglie molto più in concreto la realtà del gruppo e delle relazioni interne al gruppo. Permette inoltre di articolare i problemi della singolarità di ognuno dei partecipanti. Essa si oppone (come la logica del generale) alle logiche “ossessive” della totalizzazione. Ciò che le caratterizza, l’una e l’altra, è che si articolano in un’indeterminatezza plurale. La logica del generale non obbedisce al principio del terzo escluso, mentre la logica del vago, vicina alla nozione di “intenzione”, non obbedisce al principio di non contraddizione, cosa che la avvicina alla logica dei fenomeni inconsci. Si constata così che questa logica del vago è quanto c’è di più vicino al deciframento del senso (in opposizione alla significazione). Il senso non prende valore che dal contesto, come i fenomeni di gruppo.

Una delle tendenze di questi fenomeni di gruppo è di rinchiudersi in se stessi, di costruire delle barriere nei confronti dell’ambiente circostante, di scivolare in una specie di illusione correlativa a quest’isolamento. Ne risulta un avvicendarsi di fenomeni di suggestione, di relazioni speculari e di uniformazione interna.

Soggiacenza, attitudini collettive, rapporti complementari, relazioni indirette, permettono di cogliere ciò che succede da un gruppo all’altro, al fine di evitare lo scivolamento naturale verso la chiusura in se stessi, la formazione di compartimenti stagni, l’uniformazione.

Ma uno schizofrenico è già “chiuso”. Il lavoro che propone l’autore appunto è di cercare di fare degli “innesti di aperto”. E’ dunque necessario modificare costantemente la struttura perché ci sia dell’aperto.

Ci si può allora porre il problema delle prese in carico psicoterapeutiche, sia da parte dei gruppi, sia individuali, in un ambiente istituzionale che deve essere sufficientemente accogliente, aperto. “Aperto” per mettere in cantiere ciò che è più perturbato negli psicotici: la qualità dello spazio, nel suo gioco dialettico, e i limiti del corpo.

Ci sono, però, dei fenomeni spesso misconosciuti. Per esempio alcuni schizofrenici non partecipano a nessun gruppo, anche se glielo si chiede. E tuttavia succede che se un gruppo che era organizzato scompare, loro si scompensano. Ciò che conta per loro è che ci siano dei gruppi, una rete; Tosquelles parla di “rete istituzionale” correlativa ad un certo ambiente. E’ la rete che gioca un ruolo nell’esistenza di questo o quello schizofrenico, il quale non può inserirsi in un gruppo che viene definito psicoterapeutico.

In altri casi bisogna studiare ciò che può succedere analizzando la composizione del gruppo. Nei gruppi stabili di Kestenberg e Decover non ci sono praticamente psicotici, mentre ce ne sono molti nei gruppi instabili o aperti.

Molto importante è l’elemento che mantiene il gruppo, quell’elemento centrale, che è un qualcosa di equivalente alla rimozione originaria, equivalente ad una sorta di vuoto; si devono inoltre decifrare i modi di relazione per comprendere meglio la struttura del gruppo e per evitare delle catastrofi naturali come la fuga centrale, che fanno svanire gruppi appena nati. Il modo in cui ciascun partecipante si situa rispetto a questa fuga virtuale permette di cogliere meglio la sua personalità e introduce delle facilitazioni di parola, dei ponti dall’uno all’altro.

 

  • Il paziente psicotico nel gruppo a finalità’ analitica.

L’autrice Stefania Marinelli[81] si avvicina al tema dei pazienti psicotici all’interno del gruppo terapeutico da un punto di vista particolare, quello del sentire, del sentire psicoanalitico.

Freud si è occupato lungo tutta la sua opera, in particolare nello studio dell’isteria, del sentire sia come evento fisiologico, sia come base del conoscere e del pensare e anche come modello dell’attività rappre-sentazionale della mente e dei processi cognitivi; anche la psicoanalisi a lui successiva, particolarmente quella che si è cimentata, come quella inglese, nello studio delle psicosi e ha formulato una modellizzazione in tal senso, ha tenuto in sempre maggior conto l’aspetto e l’esperienza soggettiva del sentire. Bion l’ha teorizzata e inclusa soprattutto dal punto di vista del valore conoscitivo della esperienza inconscia, a cui il pensiero ogni volta ritorna per sviluppare rottura, cambiamento e conoscenza (vedi l’idea della differenza fra le due forme di conoscenza, K e O).

La prospettiva utilizzata, relativa al sentire prima che al pensare vuole indicare in special modo quelle particolari condizioni della sofferenza psichica e mentale, limitative della facoltà di compiere l’esperienza, di elaborarla e di trasformarla, il cui approccio durante l’analisi richiede soprattutto un coinvolgimento della persona dell’analista e del suo sistema e metodo di pensiero.

Infatti il modo di sentire dei pazienti durante l’analisi è in questo senso considerato come se fosse insieme la scena delle loro risorse e produzioni personali, e quella delle loro difese e resistenze: come l’oggetto del cambiamento, cioè del desiderio e della paura. Come il sogno. E come il sogno sarà da rispettare, da accogliere, da conoscere.

All’analista che tanta di avvicinarsi al trattamento di pazienti psicotici si pone una necessità, quella di porre costantemente in campo e nella relazione di analisi un pensiero dalle qualità sorgive e intere; ma anche quella di offrirsi come soggetto totalmente sincero per quello che egli è realmente, al di là, o meglio al di qua, della finzionalità analitica; come contenitore anche preventivo delle ansie intollerabili e rifiutate del paziente; e come soggetto virtualmente capace sia di parziali prestiti integrativi (di funzioni mentali assenti o rimosse o distrutte nel paziente), sia di momentanei o prolungati alloggiamenti in sé di attività e materiali

 

psichici che il paziente non può o non vuole o non sa di ospitare in sé. La flessibilità che l’approccio a questi pazienti richiede e insegna, presume che l’analista disponga della possibilità di fare fusioni “buone” con il paziente e con il suo mondo di sentimenti nascosti, ma anche rapidamente di saperne uscire e procedere in direzioni e spazi completamente diversi, spesso paralleli o lontani, che necessitano comunque di una marcata discriminazione di sé e sufficiente auto-differenziazione. L’autrice sostiene che la verosimiglianza di un trattamento analitico con un paziente psicotico o un gruppo, tragga la sua possibilità di successo dalla capacità che ha l’analista di utilizzare il “come se” analitico come un dato concreto e il dato concreto “come se” non fosse reale: poiché in questi pazienti manca la dimensione della finzionalità, e al contempo quella concreta, spesso arroccata in sistemi difensivi rocciosi e unilaterali, occupa tutto lo spazio dell’espressione e dello scambio, allora dobbiamo immaginare che tale scena o dimensione finzionale sia da creare, deducendola dai dati disponibili, e che i suoi personaggi siano da attivare attraverso la mente dell’analista (e del gruppo) e al suo interno. Quindi, non un soggetto che analizza un oggetto, ma un teatro a più voci, il quale potrebbe essere utilizzato dal paziente psicotico per rendere sia meno monolitici sia più funzionali i meccanismi, di cui egli fa abuso, di scissione e negazione: crederà più facilmente che il negato potrebbe essere vero, e che il vero, così dialetticamente dedotto e specie se molto minaccioso, sia in realtà non plausibile.

Il paziente psicotico è sempre molto sensibile nel percepire la qualità profonda della risposta dell’analista, la sua eccessiva unilateralità o unidirezionalità; è più sensibile al vuoto, alla passività, all’inautentico; teme il monotono, il ripetuto, l’indugio; è intollerante dell’incertezza e pretende un tipo di assertività particolare, contenente tutti gli opposti, la massima semplificazione, la verosimiglianza, la trasmissibilità veloce e diretta; la giusta profondità. La complessità lo affatica; egli irride alle tracce dei movimenti acrobatici e paradossali dell’analista, quando li percepisce.

La presenza del paziente psicotico non ammette margini di controllo, progetto, previsione del piano terapeutico e della evoluzione della relazione di analisi, e l’analista (e il gruppo) è sottoposto ad un regime di cambiamento e di astinenza che può invadere la sua comune fiducia nell’uso di funzioni mentali e affettive, che lo sostengono abitualmente nella lotta contro l’offesa degli elementi distruttivi, e che tende a disordinare i suoi investimenti e le sue identificazioni di base. Nell’analisi di un transfert psicotico non c’è posto per l’ordine delle preferenze e neppure per la preferenza per la vita stessa; e nello stesso tempo questa astinenza analitica e questa mobilità richieste e necessarie costituiscono il rischio che la mente psicotica le vanifichi o le controlli come un territorio di manovre tiranniche e svuotanti, che tenderebbero a esaurire il tentativo di auto-differenziazione dell’analista. E’ difficile conoscere il confine fra accoglimento, elaborazione, respingimento dei contenuti e delle modalità psicotiche, dato il loro aspetto saldato di bisogni del narcisismo coesivo e di invasione pervasiva e maniacale del narcisismo distruttivo. La sostanza con la quale si tratta è una sostanza insieme molto complessa e elementare, molto primitiva e molto evoluta, opaca e insieme geniale e brillante; presente in modo concreto e evasiva in massimo grado. Il suo dolore bruciante e la sua freddezza disorientano la ricerca di un registro emozionale e l’incontro con lo stato di continua intermittenza e frattura dei contenuti correlati, o che correlati non sono, rischia di accelerare la ricerca di un approdo qualsiasi, che attenui l’angoscia del vuoto e dell’esplosione che minacciano di travolgere tutta l’esperienza di condivisione.

Il gruppo ha numerose funzioni terapeutiche che aiutano a consentire un’esperienza di contatto e di riappropriazione di sé nei pazienti psicotici: sia nel senso comparativo (mettiamo, nel confronto con l’esperienza terapeutica duale); sia nel senso specifico (per le qualità proprie del setting di gruppo); per esempio si possono promuovere alcuni fattori terapeutici che possono svilupparsi spontaneamente nel gruppo, e la possibilità di finalizzarli, conservandoli attivi, anche quando il suo campo, reso intasato periodicamente da elementi e esperienze distruttivi, fatichi a mantenere attiva la funzione analitica e la formazione di una memoria, e di un patrimonio di affetti e idee in grado di restituire proprietà trasformative e evolutive all’esperienza.

L’autrice, nel suo articolo, porta un esempio di gruppo terapeutico da lei condotto in una istituzione psichiatrica che ha reso esprimibile e modificabile l’esperienza di tre elementi fortemente distruttivi che erano stati portati e si erano creati al suo interno: la violenza, la vendetta, la ribellione. Questi elementi si erano di volta in volta aggregati e disgregati tra loro rendendo per molto tempo la comunicazione del gruppo piena di rivalità, emarginazione ed isolamento. Però l’esperienza di potervi depositare ripetutamente e in molte forme sempre diverse, vissuti caotici e disgreganti, senza che l’attenzione del gruppo rinunciasse alla possibilità di accoglierli, esplicitarli e ricordarli, restituendo l’idea di sentirli riconosciuti e legittimati come costitutivi dell’esperienza di sé, aveva aiutato il gruppo nel suo insieme a reperire un fondamento comune in una qualità nuova del narcisismo di ognuno e di tutti, non mortifera e distruttiva, ma al contrario desiderante e orientata verso passioni condivise, che consentivano la cognizione delle differenze individuali e l’uso dell’esperienza soggettiva per qualificare l’identità e l’apporto personale all’interno del gruppo. La comunicazione si era resa prima più fruibile e con caratteri di solidarietà, poi più differenziata; la rivalità si era trasformata in stimolo; l’intolleranza in compassione di sé e dell’altro. Inoltre secondo l’autrice senza la presenza di soggetti psicotici, il gruppo nel suo insieme e soprattutto ogni suo membro non avrebbe potuto compiere la stessa esperienza profonda di riconoscimento di sé e di arricchimento trasformativo.

 

  • Scene-modello e fasi di un gruppo di psicotici cronici.

 

Due concetti molto importanti che non si devono trascurare quando si parla di gruppo sono quello di successione delle varie fasi e quello di scena modello. Proprio su questi due concetti importanti si è concentrato un lavoro fatto da Antonello Correale e Patrizia Masoni, i quali hanno applicato questi aspetti alla terapia di gruppo di giovani psicotici.

Il concetto di scena modello è stato messo a punto da Lichtenberg[82] per designare un episodio che contiene in sé la caratteristica di riassumere tutta una modalità di relazione (per esempio madre-figlia) per un lungo periodo della vita. Infatti le scene modello che paziente e analista costruiscono e modificano durante la terapia psicoanalitica comunicano ad ognuno dei due, in forma metaforica, eventi significativi e ripetuti nella vita del paziente. Le informazioni usate per costruire le scene modello sono tratte dai racconti del paziente e mettono in evidenza esperienze che rappresentano tematiche motivazionali salienti consce ed inconsce.

Da qui si può supporre che la comparsa di una scena-modello in un gruppo può costituire una chiave di lettura utile per individuare in che fase il gruppo si trovi; con scena-modello si vuole quindi indicare non solo una sintesi narrativa di una relazione passata, ma un episodio molto significativo e incisivo della vita del gruppo, che resta fortemente impresso nella memoria del gruppo, perché viene vissuto come un possibile inizio di una fase nuova nella storia del gruppo.

Molti contributi di studiosi di psicoterapia di gruppo hanno mostrato l’utilità di cogliere, nello sviluppo del gruppo, la successione di fasi o posizioni, intendendo con questo termine particolari configurazioni relazionali e modi di funzionare affettivi del gruppo, prevalenti in certi momenti. .
Recentemente, l’utilità di considerare l’importanza dei passaggi tra una fase e l’altra è stata sottolineata anche nell’ambito degli studi della psicologia del Sé .

In questo contributo, vorremmo sostenere essenzialmente due punti fondamentali. Il primo riguarda appunto il fatto che il bisogno di rispecchiamento e idealizzazione assume aspetti diversi quando “l’oggetto sé” è centrato prevalentemente sul gruppo (fase iniziale) e quando viene centrato invece essenzialmente su singoli membri (fase successiva)
In secondo luogo, vorremmo sostenere l’idea che la scena-modello assume caratteristiche e funzioni diverse a seconda della posizione in cui fa la sua comparsa. Nella posizione iniziale, infatti, la scena-modello può assumere il carattere di una storia generale, un mito, un film, una leggenda, conosciuta da tutti e dotata di un valore universale. Nella seconda posizione, la scena-modello risulta invece specifica per un singolo membro, ma contiene caratteri di identificazione tali che tutti i membri del gruppo possono coglierne un aspetto personale e individuale .

In questa comunicazione, vorremmo sostenere l’ipotesi che anche nei gruppi di psicotici cronici giovani è possibile riconoscere il passaggio da una prima posizione di indifferenziazione a una di parziale riconoscimento delle differenze, se la vicenda viene esaminata dal punto di vista dei bisogni di rispecchiamento dei membri. In tale posizione, i pazienti, come singoli, cominciano ad avanzare richieste individuali di apprezzamento e visibilità e manifestano una maggior consapevolezza di sé, con possibilità’ di autorappresentazione. Abbiamo ritenuto utile chiamare questa seconda posizione, “posizione di autorappresentazione” e abbiamo cercato di coglierne gli aspetti essenziali, che sono nell’insieme, necessari allo sviluppo individuale, ma molto rischiosi per l’unità del gruppo .

La scena-modello tipica della posizione di autorappresentazione ha caratteristiche diverse da quelle della scena-modello tipica della fase precedente, caratteristiche che è utile riconoscere e specificare.
C’è un accordo generale, tra i conduttori di psicoterapia di gruppo, che nel corso dello sviluppo del gruppo sia possibile riconoscere il susseguirsi di alcune posizioni relativamente identificabili e costanti. D’altro canto, è stato giustamente sottolineato che la divisione in fasi, se adottata in modo rigido, rischia di sovrapporre al fluido evolvere del gruppo uno schema rigido e meccanico. E’ stato inoltre osservato che le fasi possono essere considerate posizioni, stati cioè del gruppo, piuttosto che tappe inevitabilmente susseguenti e che è possibile osservare ritorni e inversioni di direzione.

È possibile ritrovare il tema fasi/posizioni nei gruppi nell’ambito di molti approcci tra loro molto differenti; nell’ambito dell’approccio bioniano sono distinte due fasi: la prima, chiamata da C. Neri[83], sulla scorta di Bion, fase “omerica”, il gruppo vive, per così dire, immerso nella sua propria autoidealizzazione e non c’è distinzione tra individuo, gruppo e un’incombente atmosfera di sacralità idealizzante. Nella seconda fase, chiamata da Neri della “comunità dei fratelli”, nasce il senso della solidarietà, che a sua volta deriva dal riconoscimento di una separazione di base tra gli esseri umani[84].

Nel caso di una terapia di gruppo con giovani psicotici, è possibile riconoscere una tendenza alla successione di posizioni; in particolare è possibile ipotizzare che a una prima posizione, che si può definire di indifferenziazione, ne segue una seconda in cui fanno la comparsa tentativi di valorizzazione del bisogno personale, di essere riconosciuto nella propria individualità, sia dal gruppo come totalità, sia dal conduttore, sia dagli altri membri del gruppo.

Gli autori propongono di chiamare questo secondo momento come fase di comparsa, nei singoli partecipanti, della funzione di autorappresentazione. L’inizio di questa fase è però contrassegnato da forti spinte frammentanti e dall’emergenza di affetti ostili e competitivi, da intolleranza e rancori. I sentimenti sono meno condivisi e questo può portare a sfiducia e perdita di prospettive. Il concetto di scena-modello è qui molto allargato al contesto del gruppo, il riferimento non è tanto al passato di un individuo, ma a tutto un modo di sentire, condiviso da tutti, che ha caratterizzato il gruppo per un periodo molto lungo.

Attraverso la supervisione, nell’ambito di un progetto di ricerca biomedica finalizzata, del Ministero della Sanità Italiano, e’ stato possibile seguire, per alcuni anni, l’evoluzione di un gruppo di sei giovani psicotici, curati all’interno di una struttura residenziale, dell’Istituto Scientifico Stella Maris di Fauglia (Pisa), che si riuniva una volta la settimana con ritmo regolare. Riassumeremo in breve le caratteristiche di questo gruppo.

Sono stati inclusi nello studio sei soggetti di sesso maschile che rispondevano ai criteri diagnostici del DSM IV compresi nel capitolo “schizofrenia ed altri disturbi psicotici”, con l’eccezione di un caso con “Disturbo di personalità schizotipico”; con patologia esordita in adolescenza: dai 14 ai 16 anni; l’età media dei pazienti all’inizio della terapia di gruppo era di 22,7 anni (range 19,3-25,2); in tutti i pazienti la valutazione cognitiva mostrava un profilo disarmonico, con valori Q.I. al limite della norma o con lieve deficit. Tutti i pazienti assumevano neurolettici e carbamazepina (come stabilizzatore dell’umore), ed erano ricoverati nell’Istituto da meno di cinque anni. Il gruppo terapeutico si è riunito regolarmente per circa due ore ogni settimana condotto da una terapeuta neuropsichiatra e da una co-terapeuta. Regolarmente, ogni mese, vi e’ stata la supervisione del materiale clinico.

La letteratura molto vasta riguardante la psicoterapia di gruppo con psicotici cronici, ha messo in evidenza le specifiche difficoltà nella conduzione di questo tipo di gruppi. In particolare ci sono due caratteristiche tipiche di questa situazione: la frammentarietà e la concretezza. La prima riguarda la ben nota tendenza a sequenze comunicative facilmente interrotte, con tratti di divergenza e di facile interruzione del tema, con conseguente effetto di stanchezza emotiva e senso di inutilità da parte del conduttore. La seconda riguarda l’altrettanto ben nota tendenza a un riduzionismo semplificante, con un’eccessiva svalutazione dei significati, un appiattimento emotivo, una tendenza all’evitamento della sintonizzazione emotiva. La sensazione, fastidiosa e stancante, che il conduttore mediamente riporta, è quella di essere circondato da frammenti galleggianti, senza ordine e regola, dotati di forza d’uno, ma privi di valenza comunicativa evoluta[85].

Alcune modalità efficaci, anche se su tempi lunghi, per fronteggiare questi problemi, utilizzate anche in questa esperienza, sono state:

1) la tecnica della ”amplificazione tematica”[86], secondo la quale il conduttore si preoccupa non tanto di dirigere le modalità interattive dei singoli membri l’uno con l’altro, ma di costituire una continua opera di collegamento tra gli interventi, in modo che i temi presenti si sviluppino anziché indebolirsi. Questa tecnica si ottiene attraverso sottolineature, domande, precisazioni e diventerà a poco a poco una vera e propria funzione vicariante della capacità sintetica ed associativa del gruppo;

2) un’altra tecnica è la “narrazione controllata” attraverso la quale il conduttore ripresenta frammenti scissi e confusi provenienti dal gruppo sotto forma di storie più leggibili, caratterizzate da una affettività comune a tutti e propone al gruppo di commentarle.

3) una terza tecnica concerne la valutazione di ruoli fissi: è frequente che nel gruppo vengano a delinearsi ruoli rigidi, maschere pietrificate e sempre uguali, che alcuni pazienti adottano per proteggersi da vissuti ed emozioni particolarmente angoscianti e che il gruppo non ha il coraggio di mettere in discussione per paura di attivare e fronteggiare angosce insostenibili e caotiche. Il vittimista, il monopolizzatore, il grandioso sono alcuni esempi di questi ruoli, particolarmente accentuati e frequenti nei gruppi di psicotici cronici; è utile, per fronteggiare tali situazioni, considerare questi ruoli non solo come difese individuali, ma anche come tentativi di capeggiare un assunto del gruppo cioè dietro ogni ruolo vi è una corrispondente ideologia, una visione del mondo che tende a trascinare con sé alcuni seguaci o l’intero gruppo. E’ utile in questi casi una “esplicitazione, invitando l’intero gruppo a commentare, riflettere e discutere queste implicazioni, più che il ruolo stesso.

Gli autori notarono che in tutta la prima fase del lavoro del gruppo, durata circa un anno e mezzo, prevaleva nel gruppo un’atmosfera di indifferenziazione, nella quale nessuno dei partecipanti si sentiva di riferire in prima persona vissuti, eventi o impressioni. Un secondo aspetto era legato al fatto che nel gruppo sembravano prevalere alcune emozioni condivise, che erano per la maggior parte centrate sulla descrizione di stati d’animo che sembravano diffondere nei presenti un senso di condivisione e appartenenza.

L’aspetto che colpiva maggiormente in questa fase era che le emozioni prevalenti sembravano connesse a stati d’animo molto primitivi e fondamentali, centrati principalmente sulla propria collocazione nel tempo e nello spazio, sulle proprie coordinate esistenziali. I membri riferivano, più di tutto, il senso di una profonda cesura tra passato e presente: il presente, staccato violentemente dal passato, veniva descritto come uno stato di sospensione, incertezza, assenza di progettualità, vitalità intensa, ma senza un fine. Il passato veniva vissuto invece come un mondo perduto e inaccessibile, una sorta di archeologia comprensibile solo a pochi esperti, di cui si è perduta ogni chiave interpretativa.

Lentamente, verso la fine del secondo anno di gruppo, sono cominciate a emergere intense passioni personali. Ha fatto la sua comparsa, in primo luogo, una forte esigenza di riconoscimento personale accompagnata da un senso di gelosia, mai espresso chiaramente, ma nettamente avvertibile, verso gli altri membri. Inoltre il tema della propria storia personale è diventato centrale: ognuno ricordava esempi ed eventi della propria vita, che adesso esigevano commenti e riconoscimenti e non servivano più soltanto come contributo a un’emozione prevalente, indifferenziata, valida

 

per tutto il gruppo. Il fronteggiamento di questa seconda fase è avvenuto cercando nuove scene unificanti: non più l’identificazione di emozioni comuni, ma la messa a fuoco di specifiche immagini personali, ma con valenza collettiva, che fungessero da veicolo di unità per i membri. Potremmo dire, forzando un po’ la definizione di Lichtenebrg, che la tecnica consisteva nel cercare scene-modello sufficientemente efficaci per illuminare quanto accadeva, capaci cioè di rappresentare la specifica modalità di rapporto individuo-gruppo, prevalente in quel periodo.

Attraverso questa esperienza terapeutica, durata alcuni anni, con un gruppo di giovani psicotici gli autori sostengono che il gruppo ha attraversato posizioni diverse che non vanno viste come fasi, che si susseguono, secondo un modello rigido, ma piuttosto vanno viste come fasi o posizioni che possono anche essere perse e riacquisite, a seconda dello stato di frammentazione o di maggior integrazione del Sé, che la patologia psicotica dei pazienti consente. Si sono potute evidenziare delle differenze nel gruppo, tra una prima fase durata circa due anni e la fase successiva; inizialmente e gradualmente, nel gruppo prevaleva un’atmosfera di frammentazione, ogni membro ha portato sensazioni, ricordi o eventi, e scenari relazionali, collegati coll’impatto sul Sé che tali scenari hanno esercitato.

Le scene in cui il gruppo sembra frammentato nei primi tempi, sono poi diventate scene comuni rispetto alle quali ogni membro si colloca immaginativamente ed emotivamente.

Tali scene non sono prodotte spesso, ma rappresentano l’esito di un lungo lavoro preparatorio. Tutti i frammenti e gli elementi sparsi finalmente sembrano trovare in esso una forma conclusa e leggibile[87] ed ecco che l’episodio scena modello acquista valore anche per il gruppo, perché rappresenta una sorta di luogo collettivo. Le scene modello sono l’equivalente di metafore specifiche di una fase, ma sono anche qualcosa di più’: sono metafore che persistono nel tempo ed a cui si riferiscono continuamente i membri del gruppo; in questo senso esse svolgono per il gruppo una funzione organizzante e gli conferiscono anche una identità’ sua propria.

Nella posizione iniziale, la scena-modello ha assunto il carattere di una storia generale conosciuta da tutti e dotata di un valore universale.
Nella seconda posizione della terapia di gruppo, al fine del secondo anno, ogni paziente ha acquisito sempre più la possibilità di percepirsi, autorappresentarsi nel gruppo ed autodescriversi, in relazione ad un processo di inizio di individuazione e reintegrazione del Sé. Gli scenari si sono sempre più personalizzati, ogni paziente ha acquistato uno spessore crescente; tale processo di Individuazione e’ molto rischioso per l’unita’ del gruppo, ma la scena modello rende possibile che entrambe le condizioni possano realizzarsi contemporaneamente. L’utilizzo di una tecnica adeguata nel passaggio dalla prima alla seconda fase costituisce uno strumento operativo essenziale, ai fini del superamento di questo momento particolarmente delicato.

Quindi il conduttore del gruppo mette in atto una sorta di rappresentazione delle emozioni, con molta empatia ed affetto; questo consente di prendere le distanze da sentimenti troppo intensi e pericolosi; ad esempio una tecnica e’ “mostrare affettuosamente” al paziente, utilizzare strumenti indiretti come la lettura delle poesie che indicano emozioni, per nominarle indirettamente, senza spiegarle. Il gruppo può funzionare, in questa seconda fase, come uno specchio, animato ed affettuoso, che riconosce

 

bisogni e differenze individuali, pur rimanendo un unico contenitore in cui tutti possono ritrovarsi e riflettere e può restituire ai pazienti una dimensione della loro soggettività’, non più’ esplosiva e finalmente resa vivibile.

 

  • FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO ANORESSICO-BULIMICO.

 

  • Trattamento nel gruppo monosintomatico, un aiuto all’invivibilita’ del bisogno.

 

I vuoti, le mancanze, le assenze e le carenze sono gli elementi che caratterizzano l’esistenza dell’anoressica, elementi che le anoressiche sfuggono per non precipitare in un nulla senza fine; il gruppo quindi può diventare allora l’occasione di giocarsi il tempo normalmente abitato dal già noto senza cumularlo nella ripetizione del sintomo.

I primi incontri costituiscono il momento più difficile nel trattamento di gruppo, perché di fronte all’assenza di prescrizioni si può andare incontro ad un periodo di silenzio iniziale, seguito da imbarazzanti scambi di battute. Ma in questo disagio, si può cogliere la possibilità di uscire allo scoperto, di riattraversare i luoghi dolorosi delle proprie esperienze, protetti dalle intemperie dello sguardo giudicante di chi non ha condiviso lo stesso dolore. Seguono poi momenti molto diversi tra loro, sedute di stallo, incertezze, spesso accompagnate da intensa aspettativa, l’angoscia avvertita in alcuni momenti è rielaborata dal gruppo stesso e restituita ai suoi membri sotto forma di pensieri, associazioni, sogni, riportati negli incontri successivi e rimessi nel circolo del dialogo, diventando così accessibili allo scambio.

Il gruppo spesso riesce a riconoscere i tentativi consci ed inconsci di ciascuno di farsi portavoce di una razionalità astratta; si può tollerare ed apprezzare il silenzio, dimenticando il bisogno ossessivo di riempire ogni vuoto. Trovano posto i sentimenti negativi di critica, di collera senza necessariamente portare a conseguenze catastrofiche.

Col progredire dell’esperienza, il gruppo sviluppa una curiosità e una capacità di ascolto maggiore, mal sopportando che qualche membro nascondi dietro una facciata i propri sentimenti. Spesso con gentilezza il gruppo cerca un incontro al di fuori delle parole di cortesia, rimuovendo la maschera delle convenzioni formali e prendendo atto allo stesso tempo dello spessore e delle origini degli ostacoli; questo sfocia, nei momenti migliori, in un clima di confidenza e fiducia. Con il consolidarsi di un cammino comune, aumenta il senso di calore, derivato non solo dagli stimoli positivi ma anche dalla possibilità di accogliere una realtà che comprende sia il positivo che il negativo. Nel processo dell’interazione reciproca, ognuno acquisisce rapidamente molti dati sul suo specifico modo di essere in rapporto con gli altri che nel contesto di sollecitudine, spesso presente nel gruppo, svolge un ruolo profondamente costruttivo.

In questa apertura al nuovo, la realtà, intesa come riferimento forte ed oggettivo, diventa secondaria, lasciando alle persone la possibilità di dare un nuovo senso alle cose, situazione spesso congiunta ad un senso di grande stupore.

In un gruppo di terapia questo desiderio segreto e sano di allacciare legami ed interrogarsi sulla propria condizione, si organizza presto come illusione di appartenenza eterna ad un popolo specializzato, e questa concezione aiuta a disporre un apparato terapeutico, conoscitivo; talmente forte è questo bisogno di unione che spesso le ragazze sognano a catena gli stessi sogni. Nel setting duale si parlerebbe di identificazione adesiva, nel gruppo si può parlare invece di onnipotenza fruibile o di gruppo come oggetto-sè[88]. I sentimenti di vergogna, di dominio, di rifiuto, di solitudine, diventano tali che se ne può parlare, e condividere è molto importante per incrinare l’arroccamento e per creare uno spazio adatto a riconoscere che gli eventi esistono, la perdita esiste ma le si può dare un nome. Quando si diffonde nel gruppo questa possibilità, allora le pazienti anoressiche diventano generose e ricche di fantasia ed intelligenza. La comparsa di sogni e racconti crudeli rendono ragione di una soggettività nuova, attiva, efficace, al posto di quella confusa e disorientata.

Come afferma Stefania Marinelli[89], in nessun’altra patologia si può trovare così facilmente la spinta ad aggregarsi con ciò che è simile e che viene scambiato a prima a vista per identico ed indifferenziato; questo facilita la costruzione di un primo campo di elementi collettivi del gruppo e l’esperienza dell’appartenenza comune, dell’illusione come fattore coesivo e produttivo, del rispecchiamento. Questo aspetto è anche quello che facilita il passaggio verso la ricerca delle differenze, ne sottolinea l’elemento di dolore e separazione e aiuta a contare sugli affetti diffusi nel gruppo al di là delle singole persone consentendo il doppio transito degli elementi dall’uno all’altro versante in modo più fluido. Quando il lavoro del cambiamento diviene possibile la riappropriazione di sé diventa meno impensabile. Sembra che il campo dell’appartenenza denotato attraverso il sintomo faciliti l’accesso alla concezione di un bisogno o ad un’attenuazione dell’obbligo a negarlo e che esso possa fungere da soggetto gruppale, dove la presenza della soggettività è sentita gravemente minacciata.

Un altro elemento che si può riscontrare fin dalle fasi iniziali di ogni gruppo terapeutico è una forte attivazione emozionale tra i membri, perlopiù inconscia e di tipo illusionale, piuttosto che realistico[90]; è un fenomeno che abbraccia l’intero campo gruppale, è un’atmosfera emozionale. Per poter comprendere questa attivazione emozionale è necessario, secondo Marco Longo[91], tenere presente tre componenti fondamentali:

  • in primo luogo la tendenza delle pazienti ad idealizzare, consciamente o inconsciamente, soprattutto nei primi tempi, la partecipazione al gruppo analitico; l’insieme gruppale viene infatti creduto capace di riuscire molto meglio dei singoli individui in ogni sforzo nella conquista della guarigione miracolosa;
  • in secondo luogo l’entusiasmo legato al senso di essere contenuti, sorretti, accompagnati e protetti in un’area di appartenenza e di ascolto reciproco; entusiasmo che rappresenta probabilmente l’espressione di una domanda particolare, latente o inconscia, degli stessi pazienti;
  • in terzo luogo il fatto che nel gruppo terapeutico tutti i pazienti si sentono alternativamente e contemporaneamente così uguali e diversi tra loro, nello stesso tempo sofferenti o ammalati di qualcosa di così simile, ma declinato in maniera diversa in ognuno di loro, tanto da sperare di potersi al più presto riconoscere come individui separati ed autonomi.

Si pone il problema di gestire insieme sia un prepotente bisogno personale di sviluppo verso l’individuazione e l’autonomia, sia una parallela necessità di reimparare a relazionarsi con gli altri, ovvero a vivere i rapporti provando e ricambiando affetti profondi, senza fuggire o senza ritrovarsi coattivamente imprigionati in situazioni simbiotiche o adesive, in cui la relazione decade quasi esclusivamente ad un livello di tipo manipolatorio.

Ben presto tutte le pazienti si rendono conto dell’esistenza nel gruppo di due aspetti paralleli:

1) da una parte è così spesso evidente una piacevole e rassicurante similitudine nel contenuto delle varie rappresentazioni e comunicazioni individuali relative alle ansie ed ai conflitti, e questo anche se il veicolo linguistico o idiomatico di ognuno appare molto diverso;

2) contemporaneamente però si percepiscono sempre meglio una serie di movimenti oscillatori tra opzioni di fiducia o affidamento e rinnovata sfiducia nel gruppo e negli altri il che tradisce un certo nostalgico attaccamento resistenziale ai propri atteggiamenti difensivi e sintomatici.

Elaborando la tempesta emozionale che deriva da questa situazione di continua oscillazione, il gruppo raggiunge gradualmente un livello di lavoro che permette alle pazienti di sostenere sempre meglio il presentarsi delle situazioni critiche.

Quindi la marcata situazione di forte attivazione emozionale comporta la necessità di promuovere un lavoro analitico capace di condurre il gruppo ad elaborare parallelamente sia la presenza di una forte componente illusiva, dovute alle potenti aspettative iniziali, sia un’altrettanta forte componente delusiva, dovuta alla scoperta delle difficoltà negate, alla sofferenza che si accompagna al tentativo di comunicare agli altri il significato di quello che

si sente emergere dentro di sé e nel gruppo.

 

  • Il piccolo gruppo come trattamento dell’identificazione.

 

Il piccolo gruppo, orientato analiticamente, può essere un trattamento possibile dell’identificazione, dove l’identificazione anoressica tende ad essere cristallizzata in una identificazione idealizzata. Una delle finalità del trattamento dell’identificazione irrigidita dell’Anoressia-bulimia è promuovere il carattere disarmonico di questa alienazione immaginaria rispetto al desiderio del soggetto, cioè utilizzare il gruppo non come strumento di rafforzamento dell’identificazione, ma come trattamento dell’identificazione al fine di produrre l’emergenza della particolarità soggettiva, di produrre il buco del particolare nell’omogeneità immaginaria della funzione identificatoria al “noi”. L’azione del piccolo gruppo non è di per sé terapeutica, ma è il desiderio dell’analista ciò che deve poter sottrarre il gruppo dalla tendenza al fare massa.

Inoltre perché vi sia un gruppo non è sufficiente che alcune persone si trovino con un terapeuta disponendosi in cerchio in una stanza, cioè non è sufficiente il rispetto formale del setting, infatti il tempo della fondazione non coincide col tempo dell’inizio delle sedute, ma è necessario un processo di costituzione del gruppo stesso. La fondazione del gruppo coincide con la creazione del campo inteso non solo come cornice che definisce la particolarità di un gruppo rispetto all’altro, ma anche come produzione energetica e simbolica del gruppo. Tale momento di fondazione non si esaurisce mai in un solo atto ma implica piuttosto un processo, una serie di atti di fondazione che deve portare alla costruzione di una memoria storica e di una modalità attuale di funzionamento specifico del gruppo.

L’evoluzione spontanea degli insiemi umani[92] non è quella del gruppo ma piuttosto quella del fare-massa; poiché vi sia un gruppo ci deve essere allora un processo di fondazione che sottrae il gruppo dal fare-massa. In questo senso il tempo discontinuo della fondazione punta per principio a fondare un gruppo lasciando aperta la possibilità che si sciolga. Per cui tale fondazione non avviene una volta per tutte ma ci sono fondazioni plurime che si rinnovano e si modificano.

Un aspetto molto importante sottolineato da Corrao[93] è la distinzione tra gruppo visibile e gruppo invisibile. Cioè il gruppo fenomenologicamente visibile non esaurisce la dinamica gruppale che implica sempre il riferimento ad un altro gruppo; quindi esistono sempre due gruppi, quello visibile che è quello che si percepisce e si osserva, composta da membri diversi con particolarità anagrafiche, e che ha come logica dominante quella dell’individualità e un gruppo invisibile che costituisce invece la struttura inconscia del gruppo visibile, esso non ha proprietà che possono essere concepite in termini materiali, spaziali e temporali. Mentre nel gruppo visibile ciò che conta sono i comportamenti individuali, nel gruppo invisibile ciò che conta è il comportamento gruppale. L’esistenza del gruppo invisibile è invece ciò che rende possibile la simbolizzazione dell’immaginario, che è quella che può correggere la produzione dell’identificazione meramente speculare-proiettiva tra i simili con la sanzione simbolica dell’identificazione speculare che da luogo all’identificazione per analogia che permette ad un soggetto di riconoscere, grazie alla mediazione dell’altro visibile, un proprio punto di identificazione le cui radici affondano nel rapporto del soggetto con l’altro storico-simbolico col quale ha perso il suo desiderio. L’invisibile è semplicemente ciò che eccede dal campo visibile della specializzazione immaginaria, ed è ciò che garantisce l’inconscio. Nel corso del lavoro gruppale infatti, si costituisce l’inconscio soggettivo e l’inconscio gruppale, la cui relazione non è di sovrapposizione ma di intersezione, una intersezione che marca la dimensione dell’incontro con il proprio fantasma che il mito fantasmatico di gruppo rende possibile attraverso la messa in azione della ripetizione. L’invisibile è dunque dominato dall’altro simbolico, non da quello speculare.

Per quanto riguarda il transfert, inoltre, nel processo della cura si evidenziano due assi strutturali dello stesso: l’asse immaginario e l’asse simbolico. Il primo è quello dell’identificazione, cioè la sua dinamica si manifesta in termini di proiezioni ed introiezioni inconsce. Il transfert immaginario anima l’altro fantasmatico dell’anoressica-bulimica, ma lo anima all’interno del gruppo visibile. Il secondo, l’asse simbolico, è quello della parola. La parola è infatti irriducibile alla reciprocità speculare della relazione immaginaria, essa implica il linguaggio. Il transfert simbolico tocca la dimensione della ripetizione e dunque la possibilità che essa implica di simbolizzare le dinamiche immaginarie prodotte dal dispositivo gruppale della seduta.

La costituzione di un gruppo avviene attraverso ciò che accomuna e non ciò che differenzia, quindi in parte abolisce la dimensione particolare sotto un’insegna universale; ma solo attraverso questo senso di comunanza che si può agganciare una domanda di cura altrimenti impossibile. Ma tale accesso non conduce al tempo soggettivo dell’analisi ma a quello del noi gruppale, al tempo dell’immedesimazione immaginaria, stesso sintomo, stesso significato, stesso tempo della cura, stessa storia. La strategia del gruppo monosintomatico, orientato analiticamente, è quella di registrare questa identificazione accettandone preliminarmente la logica. Il lavoro con i gruppi monosintomatici è finalizzato a produrre la divisione soggettiva ma consentendo in un tempo iniziale ad assumere l’inganno dell’insegna anonima dello stesso, del suo potere di unificazione e di anti-divisione. Questa prima identificazione è l’identificazione all’insegna sociale dell’anoressia, mentre Recalcati[94] chiama “seconda identificazione” quella che si produce una volta messo in funzione il dispositivo gruppale[95]. Si tratta di una identificazione al “noi” del gruppo che è già un filtro rispetto all’identificazione di massa iniziale. Quello che si nota facilmente nella pratica analitica applicata ai gruppi è che nessun gruppo è uguale all’altro. Una sorta di narcisismo di squadra alleggerisce così il soggetto dal peso angosciante di dover sostenere in solitudine la sua identificazione idealizzante all’anoressia. È il carattere spontaneamente deangosciante della seconda identificazione, che è l’effetto di una reiscrizione del soggetto in un legame sociale possibile. Mentre prima dell’entrata nel gruppo l’identificazione all’insegna anoressica produceva un effetto di nominazione anonima, sociale, adesso con l’entrata in gruppo questa identificazione dà luogo ad una versione aggiornata dell’identificazione collettiva: appartenere ad un gruppo sottrae dall’isolamento della prima identificazione. La domanda alienata di identità riceve una risposta. L’essere in gruppo è un effetto di questa prima operazione; il risultato è un’identificazione che non rompe il legame sociale ma lo consente. In questo senso è un’identificazione che alleggerisce l’angoscia; in molte situazioni è ciò che si oppone alla deriva mortifera dell’anoressia e il gruppo diventa un nuovo annodamento per il godimento la cui deriva conduce il soggetto alla distruzione; il gruppo può così diventare un nuovo partner, qualcosa che il soggetto anoressico può mettere tra sé e la spinta verso la morte che lo abita.

L’operazione che si cerca di realizzare attraverso il dispositivo del piccolo gruppo consiste nell’estrazione del particolare soggettivo dall’omogeneità falsamente monosintomatica dell’universale. Nello spazio del gruppo monosintomatico, la metafora sociale è lavorata dalla metonimia gruppale[96]. In questa prospettiva l’interpretazione dell’analista valorizza la non coincidenza più che la coincidenza, il dissimile più che il simile. Il transfert nel gruppo si regola certamente sulla supposizione di sapere ma aggiunge un’altra caratteristica che differenzia radicalmente la seduta di gruppo da quella analitica classica: l’azione del gruppo come fattore di drammatizzazione del transfert, cioè se è il desiderio dell’analista che sostiene il dispositivo gruppale, è il gruppo che opera da supporto al fantasma del soggetto secondo un effetto di precipitazione che lo evidenzia. Il gruppo innesca un movimento inatteso che svuota l’omogeneità immaginaria e che attiva invece una possibilità inedita per il soggetto di ripetere ciò che è già stato; questo significa che la contingenza dell’incontro resa possibile dal dispositivo gruppale non svanisce nel nulla ma si deposita in una elaborazione simbolica cruciale che modifica l’essere stesso del soggetto.

 

  • Dinamiche del gruppo anoressico-bulimico.

 

Il piccolo gruppo è diventato ormai uno dei più diffusi strumenti di psicoterapia; negli USA ha già riconosciuto un uso vastissimo ma anche in Italia si sta verificando tale fenomeno. Un gruppo si compone di solito di 8-10 persone compresi uno o due gruppoanalisti[97]; il compito dei pazienti è quello di comunicare il più liberamente possibile mentre quello degli analisti è quello di facilitare la comunicazione e di aiutare a cogliere il senso inconscio di ciò che viene detto e scambiato. Il gruppo tuttavia comunica al di là delle parole, con lo sguardo, con i movimenti e impone la forte presenza del corpo; proprio quando il corpo è drammaticamente coinvolto è necessario un intervento concreto. L’unitarietà antropo-bio-psichica dell’umano si mostra con evidenza nel setting gruppale, luogo nel quale è abbastanza immediato osservare che tutto ciò che riguarda il soggetto è corpo, è mente, è relazione, è organizzazione sociale. I disturbi del comportamento alimentare sono una patologia che coinvolge e sconvolge i rapporti tra mente, corpo e relazione e in tal senso il gruppo si configura come luogo elettivo per il trattamento dei disturbi psicosomatici. Nel gruppo gli altri sono presenti non solo fantasmaticamente ma anche fisicamente, con la loro corporeità: soggetti disposti circolarmente che, nella reciprocità degli sguardi, creano un campo relazionale. Il corpo diviene metafora del gruppo stesso, luogo dell’accoglienza e del contenimento della sofferenza, ma anche spazio nel quale la storia del corpo può raccontarsi. Il gruppo è quindi un sostegno, un contenitore per i propri vissuti passati e presenti; ma non solo il gruppo è contenitore, le singole individualità che lo compongono possono a loro volta funzionare secondo il meccanismo dell’identificazione proiettiva, come altri contenitori. Ciascuno può proiettare sull’altro parti della propria persona difficili da tollerare, difficili da riconoscere come proprie. Ogni sfumatura caratteriale si frantuma grazie ad un gioco di specchi che cattura e rifrange volti differenti della stessa immagine.

Nel gruppo il corpo diventa parola: è il linguaggio delle posture comunicanti e degli atti comunicazionali, luogo della teatralizzazione di sé e dell’altro. Inizialmente per le pazienti sembra non esserci altra parola se non quella del corpo; il percorso terapeutico consisterà, dunque, in un processo inverso: dare corpo alla parola. Riappropriandosi, in termini simbolici e narrativi, della propria storia, l’individuo potrà dare voce al dolore e sottrarsi all’incombenza del sintomo.

Tramite il confronto, la condivisione, il rispecchiamento reciproco, la comunicazione, l’interpretazione, diviene possibile andare oltre il sintomo. Il “rimettere in moto” la vita psichica porta con sé una dimensione perturbante nella misura in cui in gruppo ogni singolo non solo guarda alla propria storia personale ma vive anche direttamente l’incontro con il nuovo, il diverso, il molteplice, la differenza, l’altro. Il processo gruppale si scontra con il sistema familiare interno chiuso, consentendo di vivere un’esperienza trasgressiva e di segno potenzialmente opposto rispetto a ciò che aveva costruito la sintomatologia. Il conflitto tra “vorrei” e “non devo” non è riferito solo al cibo, ma al desiderio, alla vita. La famiglia non è solo un fatto esterno, ma soprattutto un fatto interno, inconscio al quale ci si sente legati e dal quale non ci si può allontanare, pena un sentimento inaffrontabile, di morte psichica, di perdita dell’identità. Il cibo diventa un modo per dar voce e manifestare ciò; il gruppo, quindi, come dimensione relazionale forte, può aiutare ad affrontare il mondo interno/esterno e le infinite angosce ad esso associate. Il gruppoanalista deve quindi essere in grado di partecipare in prima persona all’esperienza relazionale visibile ed invisibile del gruppo e cioè essere capace di sintonizzarsi con la matrice di comunicazione inconscia del gruppo[98], si tratta di un’esperienza difficile di “immersione” che solo con allenamento e preparazione può essere fatta fino in fondo.

Si devono inoltre considerare le difficoltà che spesso si incontrano soprattutto nelle prime fasi della costituzione di un gruppo, cioè quella del riprodursi, all’interno del gruppo e dei transfert che lo attraversano, di una condizione di evitamento e di solitudine, di vuoto, di falsità, specifica dei disturbi alimentari, e che tenderebbe a rendere l’esperienza stessa inaccessibile, inefficace, o intollerabile. Le prime fasi della fondazione di un gruppo sono infatti caratterizzate dal miscelarsi in comune di sostanza molto primitive, caotiche, le quali tendono a creare un campo di gruppo-massa, che sovrasta la distinzione dei singoli e promuove l’elemento collettivo, anche magmatico, fusivo della messa in comune, sollecitando parti mentali individuali angoscianti e di difficile elaborazione. L’analisi di questa condizione indifferenziata, delle fantasie connesse e prodotte dal gruppo per esprimerla e viverla, può allora risultare laboriosa e tormentata come molto arduo è il compito di risalire i versanti difensivi dell’illusione idealizzante e dell’attività di negazione e scissione che la caratterizzano in un piano profondo.

Nell’esperienza in gruppo con pazienti anoressici, a questo livello si può trovare una sostanza che dubita di se stessa, di essere, di potere evolvere, di potersi comportare, entrare in contatto, plasmarsi, legarsi, ad un livello qualunque di attività e di scambio e che contiene già in se stessa il proprio riflessamento: una sostanza che è stata già sottoposta a sacrificio totale, a rinuncia estrema, a introversione o a trapianto. Tale impossibilità di autorappresentazione delle sostanze primitive, così come la incontriamo nell’inaccessibilità anoressica, contiene in sé due rischi: il primo quello di poter essere sostituita e scambiata con qualche altra sostanza presa a prestito o inventata o duplicata sulla fattezza di quella originaria; il secondo quello della esportazione sistematica e spesso compulsiva delle attività di azzeramento, deformazione, paralisi, fino alla fuga della sostanza stessa. In entrambi i casi gli elementi veicolati nel transfert conterranno tendenza all’inganno e allo svuotamento.

A questo livello primitivo il gruppo anoressico funziona esattamente come un gruppo anoressico: ad esempio il cibo mentale offerto dal terapista e dal gruppo, può essere vissuto concretamente come cibo avvelenante che si introduce in modo persecutorio nel soggetto e nel gruppo, ai fini di realizzare una vendetta o uno sterminio. Anche la forma della comunicazione può venire assolutizzata e sostanzializzata in modo concreto, il gruppo non ingerisce, non metabolizza, non assimila: è un gruppo ingombro. Si dovrebbe negoziare insieme i tempi e i modi del rifiuto, di contrattare per un po’ la scelta di morire.

Le pazienti anoressie, per accettare di cambiare e di scegliere la nutrizione e la vita, dovrebbero richiedere al terapista di ospitare in lui una cognizione particolare, relativa alla possibilità del morire o dell’inversione del vivere: questo per evitare il ripetersi della vicenda conflittuale esasperata che esse hanno già vissuto all’interno della famiglia, e che le ha portate al duello negativo fra il propugnare la vita-alimento o la morte-rifiuto. Queste pazienti hanno bisogno che il terapista conosca le risorse, le attrattive, gli abissi del rischio di perdere la vita, di negarla, di rifiutarla; che apprezzi e concepisca i prodotti sofisticati della loro ricca attività fantastica, connessa con tali esperienze. Solo così esse saranno sicure di potere sviluppare con il terapista e con il gruppo una ricerca sufficientemente radicata, che li conduca a rappresentarsi come aventi desiderio e diritto alla conoscenza e alla elaborazione trasformativa, contando su una sensibilità, dei singoli e dei gruppi, acuta, nel senso del bisogno e del desiderio, tanto a lungo frustrati e trasformati.

Ma resta il fatto che questi gruppi terapeutici nascono da una aggregazione spontanea, in modo cioè non strutturato, per esempio non c’è la scelta del terapista da parte della paziente o addirittura non c’era la decisione di fare terapia di gruppo in molte richieste di aiuto. Ma c’è uno spontaneo confluire delle persone che evidentemente non cercavano tanto la situazione terapeutica, ma uno stare insieme con altre persone come loro, con cui condividere questo senso di essere speciali. Vivere un rapporto emotivamente intenso o comunque significativo per la realizzazione della separazione da un mondo arcaico e fusionale, cosa necessaria per il raggiungimento di uno completa autonomia e progettualità di vita, ha per queste persone i caratteri del trauma psichico insuperabile e inaffrontabile. Gli ingressi e le uscite in questi gruppi sono infatti caratterizzati da una drammaticità molto maggiore che negli altri gruppi, proprio perché sono i modi traumatici e inconsapevoli di evitare la presa di coscienza di fatti emotivamente importanti. Inoltre il fatto che all’interno di un gruppo si trovino a coesistere anoressiche e bulimiche non deve essere un motivo di preoccupazione per una possibile influenza negativa delle une sulle altre, anzi il gruppo per sopravvivere deve avere un certo equilibrio; l’influenza negativa esisterebbe solo nel caso in cui si parlasse solo di cibo, peso, del sintomo, o di cosa mangiare o non mangiare; ma dal momento che questo non accade, significa che attraverso lo stare insieme ed essere inizialmente tutte uguali possono permettersi di sentirsi se stesse per poi conquistare la propria individualità; questo è possibile grazie ad una seri di dinamiche che si strutturano a poco a poco all’interno delle terapie di gruppo e sono dinamiche che hanno a vedere con il sentimento di uguaglianza e con il sentimento di sottile e graduale individuazione che però avviene in modo tale che non si perda mai l’appartenenza. Si sviluppano delle dinamiche che hanno a che vedere con il problema della separazione e quindi con il problema degli ingressi e delle uscite, eventi ad elevata drammaticità; sembra che ci sia da un lato il bisogno di negare questo dramma, questo timore della separazione, e dall’altro il bisogno di agirlo, cioè il bisogno di tradurlo in una vicenda drammaticamente vissuta. Le dinamiche che si sviluppano all’interno dei gruppi possono essere dinamiche di eccessiva coesione che poi si evolvono in momenti di separazioni brusche; oppure ci possono essere contenuti estremamente drammatici che hanno a che fare con la vita e con la morte, molto più che in altre situazioni di gruppo, ci possono essere quindi movimenti molto forti legati al senso di fusione totale, che non è poi molto distante da un sentimento che rimanga tutto fermo, immobile, è comunque una sorta di distruttività che non si manifesti attraverso una aggressività esplicita nei confronti del terapista o delle compagne.

Da quanto detto si può dedurre che la funzione principale del terapista è quella di essere disposto a fronteggiare tali situazioni anche estremamente drammatiche. Dal momento che le pazienti anoressiche sono alle prese con il problema della vita e della morte, una delle funzioni del terapista è di essere disposto a tollerare questo continuo rischio, come qualcosa che può apparire improvvisamente. Si tratta di non precipitarsi al soccorso spaventandosi, ma deve tenere una posizione molto ferma e nello stesso tempo cercare di capire e entrare in contatto senza farsi prendere il gioco. Ciò richiede sia un coinvolgimento emotivo che la capacità del terapista di fidarsi il più possibile delle capacità delle pazienti di fronteggiare la situazione senza entrare in collusione con lei. In questi gruppi come afferma la dott.ssa Alessandra Manzoni[99] si evidenzia anche un’altra dinamica relativa alla funzione del terapista, quella di mantenere vivo il dialogo tra madre e padre ideali; per le pazienti c’è sempre il bisogno di escludere una delle due figure, il terapista deve quindi mantenere vivo tale rapporto e vedere come viene giocato dalle pazienti che tendono a escludere una delle due figure, quindi una delle funzioni più delicate del terapista è quella di mantenere il dialogo delle due figure uomo-donna, madre-padre perché se no tutto viene triturato dal bisogno di fusione. Il gruppo legifera, rimprovera chi non ottempera alle leggi interne dimostrando una genitorialità interna di tipo paterno, ma al tempo stesso sa anche accogliere la sofferenza e le problematiche che hanno bisogno di consolazione e sostegno affettivo, dimostrando così di avere sviluppato anche la genitorialità di tipo materno. Quest’ultimo punto è importante, perché definisce in queste ragazze un processo di maturità di cui erano prive all’inizio della terapia di gruppo.

Il sentimento di appartenenza al gruppo e la creazione di una matrice gruppale (come spazio di elaborazione e differenziazione dalla matrice familiare satura, cioè che non offre alcuna autonomia psichica da sé stessa)[100], unitamente alla possibilità di esperire relazioni interpersonali nuove e non manipolative, rappresentano elementi fondanti su cui è possibile sviluppare il lavoro psicoterapeutico gruppale. Esso infatti si basa sull’analisi della storia psichica personale (all’interno della storia psichica familiare) e su come essa si drammatizza, si intreccia, si confronta nel processo gruppale. In sostanza si basa sul rapporto Io-Altro, fuori e dentro di se. Questo punto rappresenta l’asse centrale di lavoro e di cura nella terapia gruppoanalitica, ma per quanto riguarda gli aspetti intrapsichici del modo in cui si dispiega il lavoro nel gruppo e nel mondo interno sulla differenza individuale e sulla soggettività ancora la ricerca è in corso e non vi è ancora sufficiente chiarezza a livello di teorizzazione sul self non essendosi rilevato produttivo io semplice ricorrere ai modelli intrapsichici ed individualistici del passato[101]. Sicuramente il gruppo permette alla paziente di uscire dall’isolamento, riducendo quindi la maniacalità eccessiva e il desiderio continuo di realizzare fantasiosi progetti di autoguarigione, che sono destinati al fallimento, in quanto usati per non entrare in contatto con sé stessi. Solo quando il soggetto anoressico-bulimico trova il proprio posto, allora può compiere un percorso di cura e concluderlo. Concludere la cura non significa, però, semplicemente guarire. Il concetto di guarigione indica genericamente il buon esito del lavoro, ma non specifica in termini psicoanalitici la modalità di conclusione della cura. La guarigione “medica”, la remissione sintomatica, è l’obiettivo minimo che il soggetto riesce a raggiungere ridefinendo la propria identificazione e sostituendo all’oggetto-cibo un altro oggetto; ma il lavoro terapeutico ha un obiettivo ulteriore, ossia l’interrogazione della particolarità soggettiva, della fondamentale modalità relazionale del soggetto con l’oggetto, che si manifesta patologicamente e in modo deformato nella relazione con l’oggetto-cibo. Questo tipo di lavoro terapeutico può comportare per il soggetto due tipi di conclusioni della cura: il primo è caratterizzato dalla riformulazione radicale della domanda iniziale, che da semplice domanda di guarigione diviene domanda di sapere, rivolta ad un altro che non è più gruppo, e quindi una richiesta di una analisi individuale; il secondo è l’elaborazione, nel contesto del gruppo, della modalità fondamentale e particolare di rapporto del soggetto con l’oggetto, ciò che freudianamente viene definito fantasma.

 

  • FUNZIONAMENTO DEL GRUPPO ANORESSICO-PSICOTICO.

 

Come ho già detto, uno dei nodi cruciali della clinica anoressico-bulimica è l’aspetto del trattamento, infatti tutti i pazienti sono molto difficili da trattare, l’inanalizzabilità del soggetto anoressico-bulimico è un tema rilevante nel campo psicoanalitico, poiché questa patologia non fa di per sé sintomo per il soggetto, la “presunta” paziente non si sente ammalata , non si vuole curare, la sua anoressia è l’unica forma d’identità che è riuscita a trovare. L’aspetto del trattamento diventa ancora più complicato quando si ha a che fare con soggetti anoressici con struttura psicotica inseriti all’interno di un gruppo terapeutico, soprattutto per il fatto che sono sempre una minoranza di soggetti psicotici inseriti in un gruppo di soggetti nevrotici.

Molto importanti sono le diverse manovre del terapeuta a seconda della struttura del soggetto, soprattutto nella fase dei colloqui iniziali, dove si cerca di far emergere se al di là dei sintomi presenti, la logica a cui il sintomo risponde è dell’ordine di una domanda all’Altro oppure è cortocircuitata sul soggetto, fuori dalla presa simbolica che la struttura nevrotica presuppone in quanto tale. Inoltre, sempre nell’ambito dei primi colloqui, i soggetti nevrotici, ad un’eventuale proposta di inserimento gruppale reagiscono con delle questioni relative alla possibilità di ricevere nel gruppo la stessa attenzione da parte del terapeuta che hanno ricevuto durante i colloqui, oppure hanno timore dell’incontro con altri simili.

Invece, i soggetti psicotici, sembrano più disponibili all’invio in gruppo, soprattutto qualora abbiano un importante bisogno di contenimento. Però, nel momento in cui, un soggetto psicotico è inserito all’interno di un gruppo ha più difficoltà a reggere la situazione gruppale , essendo esposto a livello reale allo sguardo e alla parola dell’Altro. Lo psicotico tende, inoltre, a monopolizzare il gruppo, neutralizzando spesso le manovre terapeutiche che si pongono sull’asse simbolico della cura. Invece, il soggetto nevrotico in gruppo tende a riconoscersi nella parola dell’Altro e si ritrova nella storia dell’altro, la condivide in una iniziale identificazione reciproca che poi lascia il posto ad un processo di separazione e individuazione che passa attraverso un lavoro sul piano simbolico; contrariamente al soggetto psicotico che nel gruppo si scontra con il reale dello sguardo e della parola che non è in grado di sostenere e che può dar luogo a scatenamenti. Tuttavia l’efficacia terapeutica nel gruppo è strettamente legata all’elaborazione del transfert, infatti, la clinica dell’anoressia-bulimia è una clinica del soggetto centrata sul transfert, nel momento in cui si verificano interruzioni nella cura, vuol dire che lo sviluppo del transfert stenta a stabilirsi, ciò dipende dal fatto che la libido del soggetto è vistosamente attaccata all’immagine anoressica del corpo magro o catturata dalla crisi bulimica, dunque per questo, difficilmente disponibile a spostamenti. Infatti, la difficoltà del soggetto è quella di attribuire al terapeuta la funzione di soggetto supposto sapere, dunque lo sviluppo di un transfert simbolico, il paziente, in genere, s’interroga sul terapeuta e come ogni nevrotico, soprattutto nella versione isterica vuole gettare il terapeuta nell’impotenza, perché niente, neanche il suo sapere può cambiare il soggetto.

Il transfert psicotico, invece, è un transfert divorante, la stessa presenza dell’analista diventa oggetto di divorazione, che però allo stesso tempo è una presenza che deve essere assicurata. Nel momento in cui, questa presenza non è reperibile nella realtà, il transfert può scatenate l’odio e il sentimento di persecuzione poiché l’assenza non può essere in alcun modo simbolizzata e si manifesta al soggetto come rifiuto dell’Altro. In definitiva, le manovre terapeutiche che sono necessarie, si dirigono in caso di nevrosi, alla parola del paziente rinviata sul lato dell’enigma, per cui il trattamento scongelerà quella solidificazione che si è prodotta nel soggetto, cercando di smontare la sua identificazione al sintomo. Sul lato delle psicosi, il sintomo è il modo attraverso il quale il soggetto si ripara da tutto ciò che viene dall’Altro, un Altro che spesso è quello materno e con ciò sarà necessario trattare questo Altro, rendendolo meno scatenante per il soggetto. Con il soggetto psicotico non bisognerà all’inizio eliminare il sintomo, perché questo lo stabilizza e lo ripara dallo scatenamento, ma sarà necessario costruire un altro punto di stabilizzazione.

Bisogna chiedersi il motivo per cui, un numero sempre maggiore di soggetti tendono ad aggregarsi in un gruppo monosintomatico; Bion[102] ipotizza che una malattia con manifestazioni fisiche omogenee ha non solo dei risvolti legati a una dimensione individuale, ma anche una posizione rispetto al gruppo; cioè per una malattia con manifestazioni somatiche, esisterebbe una posizione psicologica gruppale, relativa alle emozioni di gruppo.[103] Ed è proprio per questo motivo, cioè che una patologia con sintomi fisici ha una corrispettiva emozione di gruppo, che tale patologia sarà particolarmente sensibile alla psicologia dei gruppi. Per cui il lavorare sugli assunti di base[104]del gruppo monosintomatico può essere considerata una cura a tali malattie; per esempio l’anoressia, può essere intesa come un passaggio da una posizione di dipendenza da un gruppo (ad esempio la famiglia) ad una posizione di opposizione e di lotta verso un gruppo famigliare; quindi un passaggio da una posizione di dipendenza a quella di opposizione ad un gruppo. In questo caso il gruppo monosintomatico sarebbe rappresentabile come un insieme di persone unite dall’assunto di base attacco fuga e che avrebbero già una posizione gruppale al momento in cui queste persone iniziano un gruppo col terapeuta. Quindi l’aggregarsi delle pazienti non corrisponderebbe solo alla condizione di medesimezza o di rispecchiamento, ma ad un naturale radunarsi di persone che si sono già identificate inconsciamente, sulla base di una emozione collettiva di opposizione ad un gruppo; questo significa che il terapeuta non deve placare troppo gli elementi di opposizione e di lotta tra i vari membri del gruppo, ma andrebbero raccolti e integrati con gli aspetti del gruppo razionale. Si viene quindi a creare uno scarto tra il ruolo curante del terapeuta e la necessità del gruppo di esprimere una posizione di lotta e di rifiuto. Secondo questa ipotesi, l’opposizione che la paziente anoressica può esprimere col sintomo e con un’emozione di gruppo espresse mediante il corpo, riflette i bisogni di distanziamento da un gruppo familiare che la desoggettivizza[105]. Su un piano fantasmatico il gruppo estende all’analista il fatto di essere solo un corpo e non una mente, creando nell’analista un controtransfert che necessita un suo attivarsi come organo di senso del gruppo; ad osservare maggiormente quello che manca al suo interno, piuttosto che ciò che contiene. Infatti non è molto affidabile il fenomeno di colonizzazione emotiva legato alla proiezione capace di attivare risposte immediate dell’analista come avviene nelle psicosi in fase acuta; lo psicotico infatti, comunicando verbalmente la sua intenzione di un attacco fisico induce un blocco e un rispetto della distanza: egli proietta nell’analista intesi sentimenti ed angosce, per esempio la paura, spaventando il terapeuta o inducendolo a rispettare i suoi spazi oppure a trattare la sua paura per restituirgli una minore. In questi casi l’analista non è un contenitore, ma piuttosto un co-produttore gruppale, che a contatto col vuoto si troverà nella necessità di ascoltare attivamente il rumore che il vuoto fa dentro di sé.

Detto questo, risulta immediatamente evidente la grande importanza della figura del terapeuta all’interno di una terapia di gruppo, il suo ruolo di monitoraggio durante il susseguirsi delle varie fasi dalla costituzione stessa del gruppo fino ad un eventuale termine della terapia.

Per poter meglio spiegare il funzionamento di un gruppo terapeutico e lo stravolgimento che esso subisce quando fa ingresso in esso un soggetto con struttura di personalità psicotica riporterò un caso clinico presentato dal dottor Lolli[106] in cui viene trattato il caso di una giovane ragazza psicotica al suo ingresso in un gruppo terapeutico composto da nevrotiche.[107]

Arianna è una ragazza di 32 anni arrivata in ABA dopo aver letto il libro di Fabiola De Clercq, Tutto il pane del mondo; durante la lettura, presa emotivamente dall’intensità della lettura, sente che quel libro è stato scritto per lei, come le era già successo con canzoni, opere d’arte, come se contenessero un preciso messaggio indirizzato a lei. A questo atteggiamento, una sorta di delirio di grandezza, lei reagisce dicendo che è una persona troppo passionale e che tale passione le risucchia tutte le energie in modo tale da non darle la forza di pensare ad altro. Solo dopo la lettura del libro capisce ciò che deve fare e si presenta in ABA con lo scopo di iniziare immediatamente una terapia di gruppo. Con molta perplessità viene inserita all’interno di un gruppo, pur sapendo le difficoltà a cui il gruppo stesso sarebbe andato incontro.

Arianna, al momento dell’ingresso nel gruppo, è in piena proliferazione delirante a continuo rischio di scatenamento psicotico, ha una convulsa attività interpretativa di orientamento paranoico, con l’attribuzione di senso ad ogni aspetto della sua esistenza che l’accompagna sin da quando era piccola. Per lei il non-senso è bandito, non è in grado di tollerare nulla che sfugga ad un possibile senso e, ad esempio, quando le muore il padre, lei costruisce una spiegazione all’evento basata sulla capacità del padre di procurarsi un infarto per sfuggire al dominio materno e morire tra le braccia della figlia. Questa proliferazione del senso la protegge dall’orrore del non-senso e la priva di ogni energia.

Arianna va ad occupare subito il posto centrale del gruppo e il suo ingresso rappresenta per il gruppo stesso un evento catastrofico, lei domanda, racconta, ride a squarciagola, osserva. Questo impetuoso fiume di parole impedisce alle altre di prendere parola, che si guardano incredule e un po’ sorprese dalla facilità con la quale Arianna si esprime. L’effetto è duplice però: da un lato Arianna si produce un effetto di rassicurazione, infatti finalmente qualcuno è disposto ad ascoltarla, ma dall’altro le ragazze rimangono paralizzate, nessuna osa prendere parola, si sente in grado di inserirsi nel discorso. Quindi, questo comportamento di Arianna, che in lei ha determinato una sorta di temporanea pacificazione attenuazione della proliferazione del pensiero, determina una profonda incompatibilità con il percorso analitico delle altre. Per cui la parola viene restituita alle altre, attraverso l’interruzione da parte dell’analista del discorso di Arianna passando la parole alle altre.

Anche questa decisione ha un duplice effetto, le ragazze si sentono riconosciute dall’analista nella loro difficoltà di tollerare l’abbondanza di materiale prodotto da Arianna, mentre quest’ultima si sente limitata del proprio godimento orale, ma inizia a registrare ogni cosa, conservando

 

meticolosamente la memoria di ogni dettaglio, e assorbendo tutto ciò che viene detto o agito. Ma si è posta una nuova questione: cioè che se il lasciare intravedere un senso nascosto, un senso da scoprire “in prima persona” conduce lentamente un soggetto nevrotico ad interrogarsi sulla propria responsabilità, sulla propria implicazione nel sintomo, per un soggetto psicotico paranoico rappresenta un’azione ad alto rischio in quanto contribuisce a far lievitare un lavoro sul senso già caratterizzato da un eccesso. Quindi questa apertura al rischio ha portato l’analista a restituire un nuovo spazio di azione ad Arianna, la quale grazie alla sua grandissima dimestichezza con l’inconscio ha iniziato a svelare l’altra scena, quella nascosta in ogni enunciazione o atto presentato in gruppo. Se in un prima tempo questa offerta del senso celato produceva una sorpresa per le ragazze e consentiva loro un risparmiarsi del lavoro personale di ricerca, nel giro di poche sedute il ritmo degli interventi è diventato martellante proprio per l’imprevedibilità e la ferocia dei suoi verdetti. Alle ragazze non restava altro che riconoscersi in quanto veniva loro proposto da una infallibile interprete dell’inconscio del gruppo.

Per quanto riguarda il transfert all’interno del gruppo, si inizia a verificare un movimento transferale in cui Arianna viene ad occupare una posizione nevralgica, in quanto commenta, interpreta collega a sedute passate ma, al tempo stesso invita le ragazze a lavorare di più e a non accontentarsi delle proprie risposte. È come se lei indicasse alla ragazze il posto dell’analista a cui indirizzare la propria parola perché questa possa mettere in moto un processo di cambiamento, ma contemporaneamente mantenesse una funzione di filtro, dal momento che riceve in prima istanza dalle ragazze una domanda rivolta esclusivamente a lei in quanto ritenuta depositaria del sapere che ad ognuna manca. Un doppio transfert per un gruppo raddoppiato; c’è in fatti il gruppo ABA condotto dall’analista in cui ogni membro del gruppo è preso da un transfert sull’analista stesso, e poi c’è il gruppo che si riunisce prima e dopo la seduta, che è quello fatto di attese immaginarie nei confronti di Arianna, alla quale le ragazze si rivolgono nella speranza di carpire da lei commenti utili sui loro problemi. Una situazione questa molto complicata che inizia a traballare quando Arianna comincia a sviluppare dinamiche di aggressività proiettando un odio incontenibile che nutre per la madre su una ragazza. A questo punto l’analista deve intervenire cercando di promuovere un passaggio dal livello immaginario, nel quale è finito il gruppo, al livello simbolico, specificando come si stia producendo nel gruppo la rete di rapporti che ognuna ha stabilito con il proprio Altro e che quindi niente che si dice è effettivamente rivolto alla persona con cui si parla. Arianna va in pezzi, e si sente gettata nell’angoscia più profonda, le sue condizioni generali peggiorano, non riesce a dormire la notte, fa incubi spaventosi, ha ripreso a fare le abbuffate. Il gruppo assiste al crollo di Arianna, che demolisce quel transfert che si era instaurato sulla base dell’effetto ammaliante delle certezze che Arianna aveva manifestato. Questo evento rappresenta una svolta nel percorso di cura del gruppo che metterà in moto la sua fondazione. Sarà grazie ad un intervento decisivo dell’analista, il quale denuncia il comportamento generale di ogni madre, affermando che si devono fare da parte, che Arianna si sente di nuovo compresa e la sua cura riprende.

La conduzione di questo gruppo è stata piuttosto complicata soprattutto perché il gruppo stesso ha dovuto pagare un grosso tributo ad Arianna, e perché due ragazze hanno abbandonato la terapia in quanto ritenevano insopportabile il suo atteggiamento. Ma non si poteva negare ad Arianna il gruppo, in quanto per lei rappresentava il posto che le era sempre stato negato, e lei l’aveva trovato e saputo valorizzare. Il gruppo per Arianna è stato lo strumento per credere in una cura, per stabilire un transfert potente sull’analista che costituisse per lei un aggancio alla vita.

Dallo studio di questo caso clinico, mi sembra abbastanza evidente che emergano le tematiche fondamentali dei vari problemi e delle dinamiche che si posso incontrare quando un soggetto psicotico viene inserito all’interno di un gruppo composto da soggetti con struttura nevrotica. Innanzitutto, la grande facilità e il grande entusiasmo che lo psicotico dimostra all’idea di entrare a far parte di un gruppo di terapia, dettato dal suo bisogno di contenimento; un entusiasmo che presto si scontra con l’effettiva difficoltà che lo psicotico incontra nell’impatto con la situazione gruppale, difficoltà nel reggere la parola e lo sguardo dell’Altro. Questa discrepanza che si verifica tra l’entusiasmo di entrare nel gruppo e le difficoltà e l’angoscia generata da esso portano lo psicotico ad assumere un comportamento manipolatorio verso le altre ragazze ma anche verso gli interventi dell’analista, cercando di neutralizzare le manovre terapeutiche che l’analista compie sull’asse simbolico della cura; inoltre questa discrepanza mette anche a serio rischio il soggetto psicotico di uno scatenamento. Nel caso di Arianna l’intervento dell’analista che garantisce il passaggio dal piano immaginario a quello simbolico crea il crollo della paziente e lo scatenamento della sua psicosi e dei deliri.

Infine da questo caso clinico emerge anche la qualità del transfert psicotico, un transfert divorante, dove la presenza dell’analista diventa sia oggetto di divorazione che oggetto di rassicurazione; infatti Arianna si sente tradita dall’analista e quindi abbandonata a se stessa quando l’analista prende le difese della compagna che aveva subito l’odio e l’aggressività che Arianna nutriva per la madre.

 

CONCLUSIONI

 

Nel corso di questa tesi ho affrontato lo studio della posizione anoressica del soggetto psicotico, soffermandomi in maniera più dettagliata sul lavoro di gruppo, per notare quali possono essere i criteri differenziali che distinguono un soggetto anoressico-bulimico con struttura psicotica da un soggetto con struttura nevrotica all’interno dello stesso contesto terapeutico che in questo lavoro è il piccolo gruppo monosintomatico.

Ho scelto di approfondire questo tipo specifico di terapia perché il gruppo rappresenta una risposta molto efficace da contrapporre al bisogno di appartenenza e ai sentimenti di isolamento e abbandono provati da queste pazienti. Inoltre, il piccolo gruppo monosintomatico può essere considerato un luogo sicuro che permette di sviluppare ed esprimere sentimenti e rapporti di fiducia che possono andare a sostituire il rapporto autodistruttivo che queste pazienti hanno verso il cibo.

Questo lavoro non ha la finalità di essere esaustivo, poiché esamina un metodo terapeutico, il lavoro di gruppo con soggetti psicotici, che solo negli ultimi anni è stato utilizzato, perché la psicoanalisi non ha mai prediletto questo tipo di terapia per la psicosi a causa delle gravi difficoltà che si possono facilmente riscontrare quando un soggetto con struttura di personalità psicotica viene posto all’interno di un gruppo; infatti, malgrado questi soggetti sembrano molto disponibili all’invio in gruppo, dovuto al loro importante bisogno di contenimento, presentano numerose difficoltà a reggere la situazione gruppale, essendo esposti a livello reale allo sguardo e alla parola degli altri, fattori che, non essendo in grado di sostenere, possono dare luogo a scatenamenti della psicosi, che nell’anoressia è congelata, chiusa grazie proprio al sintomo anoressico stesso, che è l’unico modo attraverso il quale il soggetto si ripara da tutto ciò che viene dall’altro, un altro che spesso è quello materno che bisognerà trattare in modo da renderlo meno scatenante per il soggetto. Lo psicotico, inoltre, tende a monopolizzare il gruppo, neutralizzando spesso le manovre terapeutiche che si pongono sull’asse simbolico della cura e creando spesso disagi nelle altre pazienti. Un’altra difficoltà da tenere in considerazione quando si ha che fare con pazienti psicotici è quella relativa allo sviluppo e allo stabilizzarsi di un transfert simbolico, la cui difficoltà nello sviluppo è la ragione principale per la quale avvengono le interruzioni della cura. Il transfert psicotico è u transfert divorante e ambiguo, infatti, la stessa presenza dell’analista risulta sia oggetto di divorazione, sia allo stesso tempo una presenza che deve essere assicurata, nel momento in cui questa non è reperibile nella realtà, il transfert può scatenare l’odio e il sentimento di persecuzione poiché l’assenza non può essere in alcun modo simbolizzata e si manifesta al soggetto come rifiuto dell’altro.

Inoltre, ho deciso di approfondire l’aspetto psicotico dell’anoressia perché molto spesso l’anoressia-bulimia viene considerata erroneamente una struttura di personalità, mentre essa è da considerarsi solo un fenomeno che si inserisce all’interno di una struttura, e quindi non deve escludere per principio la psicosi. Anzi, proprio per la posizione di blocco verso l’Altro bisognerebbe sempre presupporre una struttura psicotica nell’anoressia. A volte infatti, si è di fronte a delle vere proprie barriere erette verso l’Altro divorante della psicosi; infatti nella clinica della psicosi, l’anoressia-bulimia funge come una barriera, una difesa verso l’altro visto come invasore e folle che vuole godere del soggetto. La bulimica ne prende le distanze con l’evacuazione compulsiva e nel caso in cui il soggetto non riesca a vomitare si possono strutturare del veri e propri deliri ipocondriaci-persecutori legati alla putrefazione degli organi interni e alla trasformazione mostruosa dell’immagine corporea. L’anoressica, invece, fa della sua ossessione per il corpo magro un vero e proprio delirio fine a se stesso, ma attraverso tale immagine del corpo magro il soggetto riesce a mantenere un’identità proprio che altrimenti sarebbe impossibile. Per cui si può dire che l’anoressia-bulimia consente alla psicosi di mantenersi chiusa, di non scatenarsi, offrendo al soggetto la possibilità di realizzare una sorta di stabilizzazione, attraverso l’identificazione della psicosi. In definitiva, posso sostenere che l’anoressia-bulimia funge da trattamento pulsionale della psicosi, dando origine alle cosiddette psicosi non scatenate, dove non sempre si arriva al delirio.

 

 

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[1] McWilliams N. “La diagnosi psicoanalitica”, Casa Editrice Astrolabio, 1999;

[2] ibidem;

[3] ibidem;

[4] Kernberg O.(1984), “Disturbi gravi di personalità”, Bollati Boringhieri, Torino 1987;

[5] Sims A. “Introduzione alla psicopatologia descrittiva”; Raffaello Cortina Editore; (1997);

[6] Freud S. “Nevrosi e psicosi” in “Opere”, cit., vol. IX;

[7] Recalcati M. “L’ultima cena. Anoressia e bulimia”, Bruno Mondadori, (1997);

[8] Freud S. “Nevrosi e psicosi” e “La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi”, in “Opere”, voll. IX e X , Boringhieri, Torino 1967-1980.

[9] Bion W.R. “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, Armando Editore;

[10] Jaspers K. (1913), “Psicopatologia generale”, Tr. It. Il Pensiero Scientifico, Roma 1982;

[11] Bleuer E.(1985), “Dementia precox o il gruppo delle schizofrenie”, La Nuova Italia Scientifica, Roma (Ed. or. 1911);

[12] secondo l’etimologia greca, schizofrenia significa scissione della mente (schizein, scindere, fendere; phren, mente)

[13] Bleuler, 1985, p.31;

[14] ivi, p.260;

[15] ivi, p. 75;

[16] Aggernaes A. (1972) “The experienced reality of hallucinations and other psychological phenomena”, Acta Psychiatrica Scandinavica, 48, pp.220-238;.

[17] Fish F, (1967), “Clinical Psychopatology”, John Wright, Bristol;

[18] Bleuler E, (1911) “Dementia precox o il gruppo delle schizofrenie” Tr. It. La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1985;

[19] Jones E, (1962) “Vita e opere di Sigmund Freud”, Tr. It. Il pensiero Scientifico, Roma, 1982;

[20] Sedman G. (1970) “Theories of depersonalization: a reapprasial”, British Journal of Psychiatry, 117, pp.1-14;

[21] Galimberti U. “Il corpo. Antropologia, psicoanalisi, fenomenologia” Milano, Feltrinelli, 1983;

[22] Lorenzi P. e Ardito M. “Le psicosi del corpo: una ipotesi di lettura per alcune realtà cliniche” Minerva Psichiatrica, 1996, n.37, pp.21-28;

[23] Lorenzi P. “Il problema dell’ipocondria”, 1995;

[24] tale termine compare per la prima volta nel 1886 sul Bollettino dell’Accademia delle Scienze Mediche di Genova per indicare “una sensazione soggettiva di deformità o di difetto fisico, per la quale il paziente ritiene di essere notato dagli altri, nonostante il suo aspetto rientri nei limiti della norma”;

[25] De Clercq F. (1990),“Tutto il pane del mondo”, Sansoni, Firenze;

[26] mi riferisco alla presentazione da lei scritta in “L’ultima cena: anoressia e bulimia” di Recalcati M.(1997), Bruno Mondadori, Milano;

[27] Bruch H, “La gabbia d’oro” Feltrinelli, Milano, 1997;

[28] Ministero Italiano della Sanità, 1996, p.6;

[29] Theander 1931-60; Jones 1960-76; Will 1956-85; Lucas 1935-84; in Cuzzolaro, 1993;

[30] Ministeri Italiano della Sanità, 1996;

[31] Garfinkel, Garner, 1982;

[32] 1988;

[33] 1988;

[34] Cuzzolaro, “Trattato di Psicopatologia”, Pissacroia, 1997;

[35] Selvini Palazzoli (1998), “Ragazze anoressiche e bulimiche”, Raffaello Cortina Editore, Milano;

[36] Vinci G. (1991), “Percorsi familiari nelle tossicomanie da eroina”, Ecologia della mente, 10,

[37] Bruch e Palombo, 1961;

[38] Recalcati M. “L’ultima cena: anoressia e bulimia”, Bruno Mondadori, Milano, 1997;

[39] Galimberti U. “Il corpo”, Feltrinelli, Milano, 1983;

[40] Recalcati M. “Il corpo ostaggio”, Borla, Roma, 1998;

[41] Selvini Palazzoli M. (1963) “L’anoressia mentale”, Feltrinelli, Milano, 1981;

[42] Selvini Palazzoli, Cirillo, Selvini, Sorrentino, “Ragazze anoressiche e bulimiche”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998;

[43] Recalcati M, (1997), “L’ultima cena: anoressia e bulimia.”, Bruno Mondadori, Milano.

[44] Recalcati M. “Il trattamento dell’anoressia-bulimia nel piccolo gruppo monosintomatico” ( a cura di Fabio Galimberti), Unipress, Padova, 1998;

[45] Ibidem;

[46] Lacan J. “Il seminario III. Le psicosi” Einaudi, Torino, 1985;

[47] Recalcati M. “Clinica del vuoto”, Franco Angeli, 2002;

[48] Freud S. “Il problema economico del masochismo”, in Opere, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino, 1980, vol. X, p. 5;

[49] Binswanger L. “Il caso Ellen West e altri saggi”, Bompiani, Milano, 1973;

[50] Recalcati M, (2002), “Clinica del vuoto”, Franco Angeli, Milano;

[51] Zenoni A. “La psicosi e l’al di là del Padre”, Franco Angeli, Milano, 2001, pp.119-123;

[52] in italiano “rapimento”;

 

[53] Recalcati M. (1998), “Il corpo ostaggio”, Edizioni Borla, Roma;

[54] Federn P. “Psicosi e psicologia dell’io”, Boringhieri, Torino, 1976;

[55] ibidem;

[56] Freud S. “Al di là del principio del piacere”, in Opere, vol. IX;

[57] un importante riferimento al concetto di “sconnessione” si può trovare in IRMA, “La conversazione di Arcachon. Casi rari: gli inclassificabili nella clinica”, Astrolabio, Roma, 1999, p.132;

[58] nel testo “Clinica del vuoto” sopra citato Recalcati fa riferimento all’esperienza in corso da un decennio in Italia all’A.B.A (Associazione per lo studio e la ricerca dell’anoressia e la bulimia), in particolare presso l’équipe di Milano nella quale lavora;

[59] Lacan J. “les complexes familiaux dans la formation de l’individu”, Navarin, Paris, 1984;

[60] Binswanger L. “La fissazione” in “Essere nel mondo”, Astrolabio, Roma, 1973;

[61] Cargnello D. “Aspetti modali e momenti costitutivi del mondo maniacale” in “Alterità e alienità”, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 240;

[62] Recalcati M, (1997), “L’ultima cena: anoressia e bulimia.”, Bruno Mondadori, Milano;

 

[63] “Syndrome Metamorphoses in Anorexia nervosa” tratto dalla rivista Psychopathology, 1990, n. 23, pp.146-152;

[64] “Anorexia Nervosa as a phenotype of cognitive impairment in schizophrenia” tratto dalla rivista British Journal of psychiatry, 1999, n.174, pp.558-566;

[65] “A psychodinamic view of psychosis within the context of anorexia nervosa” tratto da Dissertation Abstracts International, vol.52, n.11, maggio 1992;

[66] “Disorder eating: a difence against psychosis?” tratto da International Journal of eating disorder vol.24, n.3, novembre 1998, pp.329-333;

[67] Siegel M., Brisman J. & Weinshel M., 1994;

[68] Tridenti A., Bocchia S., (1994) “Il fenomeno anoressico-bulimico” Masson, Milano;

[69] De Clercq F. (1995), “Donne invisibili”, Rizzoli, Milano;

[70] Recalcati M. (1997), “Ipotesi sulla direzione della cura”, in M. Barbuto (a cura di) La cura nei gruppi A.B.A, Franco Angeli, Milano;

[71] tratto dal sito www.psychomedia.it

[72] Foulkes S.H. (1975), “La psicoterapia gruppoanalitica: metodo e principi”, Astrolabio, Roma, 1976;

[73] Bion W. (1987) “Discussioni con Bion”, Loescher, Torino;

[74] De Polo R. (1998), “Indicazioni e controindicazioni alla psicoterapia di gruppo” contributo letto all’APG il 10/6/1998;

[75] Giaconia G. (1998), “Perché la violenza” in Psiche n.1, 1998;

[76] Freud S. (1923), “Teoria della libido”, in Opere, vol.IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1992;

[77] Kaes R. (1998), “”I processi associativi nei gruppi: le alleanze inconsce e il lavoro del preconscio” contributo letto a Milano il 17/10/1998 in un incontro promosso dall’APG;

[78] Kaes R. (1994), “La parola e il legame”, Borla, Roma, 1996;

[79] Bion definisce “protomentale” il livello in cui si pongono gli assunti di base;

[80] tratto dall’articolo “Gruppo e psicosi”, 1991, nel sito www.fnet.fr

[81] tratto dall’articolo “Psicoanalisi di gruppo” nel sito www.psychomedia.it;

[82] Lichtenberg J.D (1995) “L’uso della scena modello nella terapia del paziente grave”, Psiche, III, pp. 43-53;

[83] Neri C. (1995), “Gruppo”, Borla, Roma;

[84] Neri C. (1993), “Genius loci: una funzione del gruppo analoga a quella di una divinità tutelare di un luogo.”, Koinos, Gruppo e funzione analitica, gen-dic., XIV, n.1-2;

[85] Scala V. (1989), “Prime riflessioni sull’esperienza con un gruppo di genitori in un D.S.M”, Gruppo e funzione analitica, X, pp.41-51;

[86] Corrao R. (1979), “Clinamen”, Gruppo e funzione analitica, I, pp.15-19;

[87] Correale A. (1991), “Il campo istituzionale”, Borla, Roma;

[88] Neri C. (1995), “Gruppo”, Borla, Roma;

[89] Marinelli S. “Anoressia, o l’invivibilità del bisogno: trattamento nel gruppo monosintomatico a finalità analitica” tratto dal sito Psychomedia.it;

[90] Anzieu D. (1976), “Le groupe et l’incoscient”, Paris, Bordas, (Trad. it. “Il gruppo e l’inconscio”, Borla, Roma, 1979);

[91] Longo M. “Anoressia-bulimia: il “campo mentale” del piccolo gruppo analitico come strumento per raggiungere (e rispondere a ) la disperata domanda nascosta dietro il sintomo” tratto dal sito Psychomedia.it;

[92] Freud S.(1921), “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in Opere, cit., Vol. IX;

[93] Corrao F. (1997), “Clinica dei gruppi e sua modellizzazione”, Koinos, n.1, Borla, Roma;

[94] Recalcati M. “Clinica del vuoto”, Franco Angeli, Milano, 2002;

[95] è importante fare la distinzione tra “essere del gruppo” che si costituisce attraverso l’identificazione al gruppo stesso e “dispositivo gruppale” che è una modalità di trattamento all’identificazione di massa e trascende i singoli individui;

[96] si tratta del passaggio dall’Uno dell’ideale anoressico ad una pluralità che agisce di per sé come erosione, desolidificazione della passione narcisistica dell’anoressica per l’Uno;

[97] con il termine gruppoanalisi mi riferisco ai gruppi terapeutici di orientamento analitico;

[98] Foulkes S.H. (1948), “Introduzione alla psicoterapia gruppo analitica”, Roma, Edizioni Universitarie Romane, 1991;

[99] medico psichiatra, psicoterapeuta, che dal 1993 è supervisore presso l’ABA;

[100] Nucara G., Menarini R., “La famiglia e il gruppo: clinica gruppoanalitica e psicopatologia”, in Di Maria F., Lo Verso G., (a cura di) La psicodinamica dei gruppo, 1995;

[101] Brown D., Zinkin L., (a cura di) “La psiche ed il mondo sociale”, Cortina, Milano, 1995;

[102] Bion W.R. “Esperienze nei gruppi”, Armando Editore;

[103] nel suo lavoro Bion fa l’esempio di un gruppo di tubercolotici;

[104] intesi da Bion come stati emotivi inconsci comuni del gruppo;

[105] l’anoressica viene desoggettivizzata dalla famiglia in quanto avviene sempre un inversione di ruolo infante-genitore, secondo cui l’infante nutre simbolicamente il genitore e non viceversa;

[106] psicoanalista facente parte della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano, esercita presso l’ABA di Ancona ed è responsabile presso l’ABA di Pescara;

[107] Recalcati M, “I casi gravi”, Franco Angeli, Milano, 2001;

About the author
Katia Marilungo
Sono la Dott.ssa Katia Marilungo, Psicologa-Psicoterapeuta, Ipnotista, Psiconcologa e formata nell'utilizzo della Tecnica EMDR. Attiva dal 2003, ho maturato notevoli esperienze formative e professionali spaziando i vari ambiti di interesse clinico e non. Mi occupo di infanzia, adolescenza, individui, coppie, famiglia e gruppi.

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